Scriviamo a tutti coloro che hanno seguito, come lettori, interlocutori o anche solo in amicizia, la vita e l'opera di Luigi De Marchi. Con la morte del suo autore, anche questo spazio di discussione chiude i battenti. Prosegue nel suo percorso, invece, l'onda lunga e anomala del suo pensiero, cui è stato dedicato un nuovo sito: www.luigidemarchi.org
La nostra speranza è che, anche scomparso il suo autore, l’opera di Luigi De Marchi possa continuare a vivere, affinchè la sua eredità intellettuale non venga dispersa o dimenticata. O peggio ancora seppellita.
Paolo Fazzini e Antonella Filastro
domenica 12 dicembre 2010
sabato 7 novembre 2009
Halloween, Giallo, Horror e Sogno Angoscioso
Halloween, Giallo, Horror, Sogno Angoscioso:
tutte conferme delle mie teorie psicologiche
Come segnalavo nei giorni scorsi, la Festa di Halloween (che ha le sue radici in Europa e in Italia, con buona pace dei soliti “yankofobi” nostrani e delle loro barbose polemiche antiamericane), mi sembra costituire un evidente tentativo di esorcizzare l’angoscia della morte e, quindi, un’evidente conferma delle mie teorie psicologiche, che vedono appunto in quell’angoscia, in aperto contrasto con le teorie dominanti in campo psicologico e psicoterapico, la fonte primaria non solo della psicopatologia individuale e sociale ma anche di molte manifestazioni culturali tradizionali.
Insomma, l’emersione della coscienza e, con essa, dell’angoscia di morte nella psiche umana non è stata solo la matrice delle follìe fanatiche e stragiste segnalate nei miei libri: guerre sante o rivoluzionarie, terrorismo, esplosione demografica. Essa è stata anche all’origine d’una evoluzione emozionale e intellettuale che ha prodotto le più alte creazioni dello spirito umano (l’arte stessa può essere vista come espressione della nostra brama d’immortalità), cosicché l’Uomo, tormentata ma prodigiosa creatura del laboratorio cosmico, pur essendo spesso impazzito per le tremende tensioni della sua condizione esistenziale, è anche riuscito ad inventarsi sogni d’Amore, di Armonia, di Bellezza, di Compassione, di Giustizia, di Libertà, di Felicità sconfinata da contrapporre alla giungla spietata e ripetitiva della Natura.
E persino la festa di Halloween, con i suoi precedenti europei e italiani, si può inquadrare nell’ampia gamma di espressioni reattivo-difensive all’angoscia di morte che hanno caratterizzato le culture umane. Come si diceva, si è trattato spesso di espressioni che, senza dubbio, hanno prodotto le forme più atroci di distruttività tra gli umani. Ma, per fortuna, le difese erette contro l’angoscia primaria dell’uomo non sono state sempre e soltanto sanguinose. A volte, come nel caso di Halloween, le culture umane hanno saputo esorcizzare l’angoscia della morte con la risata: una risata affidata in Halloween ai bambini, simboli della vita che rinasce e che trionfa sulla morte. Non a caso, un grande scrittore italiano che mi ha onorato della sua amicizia, Giuseppe Berto, ha scritto una volta: “L’umorismo è l’estrema via di scampo dalla tragedia umana”.
La mia teoria della nevrosi e della cultura, comunque, può spiegare non solo la Festa di Halloween ma anche altri fenomeni culturali apparentemente contrastanti con la teoria stessa: penso ai libri e ai film gialli e al filone “horror”. Sia il giallo che il filone horror sembrano infatti attestare una grande e diffusa attrazione e passione per storie e situazioni intrise di morte e di angoscia della morte.
Ma, se esaminiamo questo fenomeno paradossale alla luce delle mie teorie psicologiche, non tardiamo ad accorgerci che quelle storie e situazioni sono altrettanti strumenti con cui tentiamo di “esportare” su altri (persone o personaggi) i nostri rischi e le nostre angosce di morte e, non di rado, anche di assicurare a quei rischi e a quelle angosce una qualche forma di “lieto fine”. Fin dai tempi dei racconti di Edgar Allan Poe, i protagonisti delle storie più terrificanti riescono infatti a scampare alla morte cavandosela, come si usa dire, “per il rotto della cuffia”.
Proprio questo frequente “lieto fine” di tanti racconti e film dell’orrore mi ha costretto a ricordare le mie analisi del sogno angoscioso, che hanno radicalmente confutato la teoria freudiana del sogno. Com’è noto Freud, letteralmente ossessionato dal suo pansessualismo, volle vedere nel sogno sempre e solo la “realizzazione allucinatoria di un desiderio (sessuale)”: e per confermare questa sua ostinata interpretazione, egli fu costretto a vedere in ogni oggetto allungato o concavo (albero o stuzzicadenti, crepaccio o tazzina che fosse) altrettanti simboli fallici o vaginali.
E poiché la maggior parte dei nostri sogni non raccontano affatto situazioni eccitanti ed erotiche ma, al contrario, angoscianti e minacciose, egli dovette sostenere che quell’aspetto angosciante e minaccioso era solo il “travestimento” della pulsione o situazione erotica imposto dalla “censura” inconscia del sognatore o della sognatrice.
Nelle mia ottica psico-esistenziale, viceversa, tutte queste contorsioni logiche appaiono semplicemente insensate o, semmai, “travestimenti” con cui Freud stesso ed i suoi epigoni hanno tentato di mascherare il significato profondo del sogno angoscioso e il terrore della morte che li assediava. Se, infatti, accettiamo l’assunto (ampiamente dimostrato nelle mie opere) che l’angoscia della morte sia l’angoscia primaria della psiche umana, apparirà non solo comprensibile ma inevitabile che essa governi anche la nostra attività onirica, producendo i molti sogni angosciosi che tormentano il nostro sonno. Questi sogni non si limitano però ad esprimere la nostra angoscia. Spesso essi tentano anche di porvi rimedio. E’ molto raro infatti che il sogno angoscioso finisca con la morte del sognante: esattamente come il protagonista dei film horror, il sognante se la cava per il rotto della cuffia autorizzandoci a vedere nel sogno angoscioso il primo e più antico tentativo ideato dalla psiche umana per esorcizzare quell’angoscia.
E a questo punto è giocoforza constatare che la mia teoria dell’angoscia esistenziale primaria ci consente di dare un’interpretazione unitaria e convincente non solo del sogno angoscioso ma anche di fenomeni apparentemente remoti dall’angoscia di morte o dalla dinamica onirica, come il giallo, l’”horror” e la Festa di Halloween.
tutte conferme delle mie teorie psicologiche
Come segnalavo nei giorni scorsi, la Festa di Halloween (che ha le sue radici in Europa e in Italia, con buona pace dei soliti “yankofobi” nostrani e delle loro barbose polemiche antiamericane), mi sembra costituire un evidente tentativo di esorcizzare l’angoscia della morte e, quindi, un’evidente conferma delle mie teorie psicologiche, che vedono appunto in quell’angoscia, in aperto contrasto con le teorie dominanti in campo psicologico e psicoterapico, la fonte primaria non solo della psicopatologia individuale e sociale ma anche di molte manifestazioni culturali tradizionali.
Insomma, l’emersione della coscienza e, con essa, dell’angoscia di morte nella psiche umana non è stata solo la matrice delle follìe fanatiche e stragiste segnalate nei miei libri: guerre sante o rivoluzionarie, terrorismo, esplosione demografica. Essa è stata anche all’origine d’una evoluzione emozionale e intellettuale che ha prodotto le più alte creazioni dello spirito umano (l’arte stessa può essere vista come espressione della nostra brama d’immortalità), cosicché l’Uomo, tormentata ma prodigiosa creatura del laboratorio cosmico, pur essendo spesso impazzito per le tremende tensioni della sua condizione esistenziale, è anche riuscito ad inventarsi sogni d’Amore, di Armonia, di Bellezza, di Compassione, di Giustizia, di Libertà, di Felicità sconfinata da contrapporre alla giungla spietata e ripetitiva della Natura.
E persino la festa di Halloween, con i suoi precedenti europei e italiani, si può inquadrare nell’ampia gamma di espressioni reattivo-difensive all’angoscia di morte che hanno caratterizzato le culture umane. Come si diceva, si è trattato spesso di espressioni che, senza dubbio, hanno prodotto le forme più atroci di distruttività tra gli umani. Ma, per fortuna, le difese erette contro l’angoscia primaria dell’uomo non sono state sempre e soltanto sanguinose. A volte, come nel caso di Halloween, le culture umane hanno saputo esorcizzare l’angoscia della morte con la risata: una risata affidata in Halloween ai bambini, simboli della vita che rinasce e che trionfa sulla morte. Non a caso, un grande scrittore italiano che mi ha onorato della sua amicizia, Giuseppe Berto, ha scritto una volta: “L’umorismo è l’estrema via di scampo dalla tragedia umana”.
La mia teoria della nevrosi e della cultura, comunque, può spiegare non solo la Festa di Halloween ma anche altri fenomeni culturali apparentemente contrastanti con la teoria stessa: penso ai libri e ai film gialli e al filone “horror”. Sia il giallo che il filone horror sembrano infatti attestare una grande e diffusa attrazione e passione per storie e situazioni intrise di morte e di angoscia della morte.
Ma, se esaminiamo questo fenomeno paradossale alla luce delle mie teorie psicologiche, non tardiamo ad accorgerci che quelle storie e situazioni sono altrettanti strumenti con cui tentiamo di “esportare” su altri (persone o personaggi) i nostri rischi e le nostre angosce di morte e, non di rado, anche di assicurare a quei rischi e a quelle angosce una qualche forma di “lieto fine”. Fin dai tempi dei racconti di Edgar Allan Poe, i protagonisti delle storie più terrificanti riescono infatti a scampare alla morte cavandosela, come si usa dire, “per il rotto della cuffia”.
Proprio questo frequente “lieto fine” di tanti racconti e film dell’orrore mi ha costretto a ricordare le mie analisi del sogno angoscioso, che hanno radicalmente confutato la teoria freudiana del sogno. Com’è noto Freud, letteralmente ossessionato dal suo pansessualismo, volle vedere nel sogno sempre e solo la “realizzazione allucinatoria di un desiderio (sessuale)”: e per confermare questa sua ostinata interpretazione, egli fu costretto a vedere in ogni oggetto allungato o concavo (albero o stuzzicadenti, crepaccio o tazzina che fosse) altrettanti simboli fallici o vaginali.
E poiché la maggior parte dei nostri sogni non raccontano affatto situazioni eccitanti ed erotiche ma, al contrario, angoscianti e minacciose, egli dovette sostenere che quell’aspetto angosciante e minaccioso era solo il “travestimento” della pulsione o situazione erotica imposto dalla “censura” inconscia del sognatore o della sognatrice.
Nelle mia ottica psico-esistenziale, viceversa, tutte queste contorsioni logiche appaiono semplicemente insensate o, semmai, “travestimenti” con cui Freud stesso ed i suoi epigoni hanno tentato di mascherare il significato profondo del sogno angoscioso e il terrore della morte che li assediava. Se, infatti, accettiamo l’assunto (ampiamente dimostrato nelle mie opere) che l’angoscia della morte sia l’angoscia primaria della psiche umana, apparirà non solo comprensibile ma inevitabile che essa governi anche la nostra attività onirica, producendo i molti sogni angosciosi che tormentano il nostro sonno. Questi sogni non si limitano però ad esprimere la nostra angoscia. Spesso essi tentano anche di porvi rimedio. E’ molto raro infatti che il sogno angoscioso finisca con la morte del sognante: esattamente come il protagonista dei film horror, il sognante se la cava per il rotto della cuffia autorizzandoci a vedere nel sogno angoscioso il primo e più antico tentativo ideato dalla psiche umana per esorcizzare quell’angoscia.
E a questo punto è giocoforza constatare che la mia teoria dell’angoscia esistenziale primaria ci consente di dare un’interpretazione unitaria e convincente non solo del sogno angoscioso ma anche di fenomeni apparentemente remoti dall’angoscia di morte o dalla dinamica onirica, come il giallo, l’”horror” e la Festa di Halloween.
domenica 13 settembre 2009
Galimberti, l'intellettualone insensato
Sfogliando "D" (il supplemento femminile di Repubblica,) del 12 sttembre 2009, mi sono imbattuto in uno dei tanti spazi che quella casa editrice accorda a Umberto Galimberti e ho letto un articolo che, sovrstato da una foto di Galimberti in posa di pensatore (con la testa tra le mani e gli occhi di fascinatore puntate sulle lettrici), iniziava così: "Per vivere, l'uomo ha bisogno di costruirsi un senso in vista della morte, che è l'implosione di ogni senso". Confesso che l'incipit mi ha fatto trasecolare, perchè tre anni fa avevo letto, in un'altra lenzuolata di saggezza galimbertiana pubblicata da "Repubblica", parole ben diverse, per non dire opposte:
"Il bisogno di significato - scriveva allora il nostro Umberto - è solo il prodotto d'una cultura, quella giudaico-cristiana, di cui siamo, volenti o nolenti, rampolli". E sentendosi ovviamente superiore a certi bambocceschi bisogni, Galimberti continuava:
"“In realtà devo essere già religioso per pormi il problema del significato della vita. Altrimenti, come nel mio caso, quel problema non mi passa neanche per l’anticamera del cervello. La questione del senso della vita e delle cose nasce infatti all’interno della tradizione giudaico-cristiana”.
Francamente non capisco dove Galimberti traesse questa sua conclusione apodittica. In realtà, la ricerca del significato è un bisogno antico quanto l’uomo: e lo troviamo già nella filosofia greca, di mezzo millennio anteriore alla civiltà cristiana, o nella religione buddista, del tutto indipendente dalla cultura giudaico-cristiana, mentre la credenza in una vita ultraterrena, come credo d’aver dimostrato nella mia opera “Lo shock primario” (Edizioni Rai-Eri, 2002), è testimoniata addirittura nelle sepolture neandertaliane di 80 o 100 mila anni fa. Ed uno dei massimi psicologi di stampo umanistico, Viktor Frankl, lo aveva chiaramente intuito quando scriveva già negli anni ’50, in polemica con Freud e Adler, che il bisogno essenziale dell’uomo non è il bisogno di sesso o di potere ma il bisogno di significato.
Galimberti non sembra rendersi conto che il bisogno di significato non nasce solo dal dolore, come egli dice, perché la storia stessa di Buddha, un principe amato dal padre e dalla sua diletta sposa e circondato solo di gioie che esce dal suo giardino incantato per conoscere il mondo e cercare la sua verità, ci dice che quella ricerca del senso della vita può nascere anche dal benessere. E poi, come lo stesso Buddha ci ha insegnato, il dolore è inseparabile dall’esistenza, se non altro perché, come i miei studi sull’angoscia hanno dimostrato, l’emersione della coscienza nel corso dell’evoluzione umana ha portato l’uomo alla coscienza del proprio destino di morte ed alla partecipazione disperata all’agonìa dei propri simili più amati: cosicché tutte le religioni, e non solo quella giudaico-cristiana, possono essere viste come altrettante formazioni reattivo-difensive dinanzi all’angoscia della morte.
Ma, non a caso, la religione stessa, che Galimberti vede solo come lo strumento cruciale della psiche umana per dare un senso alla vita, è risultata meno prioritaria del bisogno di significato nella lotta dell’uomo contro il suo malessere esistenziale. Fin dagli anni ’50, infatti, le ricerche di Herman Feifel sull’angoscia di morte tra i pazienti terminali hanno rivelato che i credenti non erano meno angosciati dei non credenti dinanzi alla morte incombente, mentre i pazienti di gran lunga più sereni sono risultati gli uomini e le donne che sentivano di aver vissuto una vita significativa o, detto altrimenti, di essersi sostanzialmente realizzati. Dinanzi a queste realtà, il sarcasmo con cui Galimberti tratta la ricerca umana di significato e se ne proclama immune appare non un segnale di superiorità intellettuale, ma solo di patetica aridità o rimozione. Del resto, penso che la ragione centrale per cui il pensiero e la società liberale sono approdati all’odierna crisi vada cercata proprio nel fatto che hanno ridotto la libertà a consumismo, l’amore a banalità sessuale e la speranza a scetticismo, senza saper rispondere a questo centrale bisogno umano di significato.
Per parte mia, credo invece che, se le religioni dogmatiche tradizionali appaiono spesso, alla mente dell’uomo moderno, patetiche favolette consolatorie, la religiosità, come perforante percezione e intuizione umana d’una forza che ci trascende e che dà appunto un senso alla nostra vita, non sia affatto da considerare illusoria. Se , come tutto sembra indicare, l’essere umano è la più alta espressione dell’evoluzione vitale, non è assurdo pensare che i sogni di Amore, Bellezza, Giustizia, Armonia, Immortalità, Creatività e Compassione portati dall’uomo in un processo vitale finora sottoposto al dominio di leggi crudeli e monotone, siano anche i sogni della Vita e che noi siamo forse espressione del tentativo della Vita di riorientare il suo corso. Insomma, l’umanesimo liberale mi sembra trovare il suo significato fondamentale in una sorta di religione dell’uomo, in una religiosità che ci fa sentire e capire che siamo portatori d’una rivoluzione cosmica e che è bello vivere e morire per i sogni dell’Uomo e della Vita.
Galimberti, dunque, sembra aver superato ultimamente il disprezzo con cui guardava agli umani in cerca del senso della vita. Ma va detto che, anche quando la ricerca del senso della vita non gli passava neppure per l'anticamera del cervello, il senso della carriera e del successo, in questa Italia governata dal sinistrese post-comunista, non gli è mai mancato. Così, per esempio, mentre ha acutamente e precocemente segnalato l'importanza cruciale dell'angoscia esistenziale nella genesi del malessere umano, si è ben guardato dall'entrare in conflitto aperto con la psicoanalisi freudiana, pur sapendo benissimo che Freud e tutto il suo movimento hanno fatto della negazione dell'angoscia di morte la pietra angolare del loro sistema teorico e professionale.
Del resto, la coerenza non è mai stata un'esigenza sentita tra i luminari della nostra psicoanalisi. Così, per esempio, Cesare Musatti, padre della psicanalisi italiana, ha fatto la sua fulgida carriera
nella cultura e nell'università italiana militando simultaneamente nell'ortodossia psicoanalitica ed in quella comunista, cioè in due mondi che erano ovviamente incompatibili: quello psicoanalitico che considerava la distruttività parte essenziale e indistruttibile della natura umana e quello comunista che proclamava di voler realizzare una società del tutto pacificata e affratellata e considerava la psicoanalisi un patetico prodotto della corruzione borghese e capitalista.
E, in fondo, questa brillante capacità di evitare ogni conflitto con i propri sponsors politici e culturali coltivando al tempo stesso clamorosa carriera e tacita eresia è una caratteristica d'ogni intellettualetto e intellettualone sinistrese italiano, da sempre.
"Il bisogno di significato - scriveva allora il nostro Umberto - è solo il prodotto d'una cultura, quella giudaico-cristiana, di cui siamo, volenti o nolenti, rampolli". E sentendosi ovviamente superiore a certi bambocceschi bisogni, Galimberti continuava:
"“In realtà devo essere già religioso per pormi il problema del significato della vita. Altrimenti, come nel mio caso, quel problema non mi passa neanche per l’anticamera del cervello. La questione del senso della vita e delle cose nasce infatti all’interno della tradizione giudaico-cristiana”.
Francamente non capisco dove Galimberti traesse questa sua conclusione apodittica. In realtà, la ricerca del significato è un bisogno antico quanto l’uomo: e lo troviamo già nella filosofia greca, di mezzo millennio anteriore alla civiltà cristiana, o nella religione buddista, del tutto indipendente dalla cultura giudaico-cristiana, mentre la credenza in una vita ultraterrena, come credo d’aver dimostrato nella mia opera “Lo shock primario” (Edizioni Rai-Eri, 2002), è testimoniata addirittura nelle sepolture neandertaliane di 80 o 100 mila anni fa. Ed uno dei massimi psicologi di stampo umanistico, Viktor Frankl, lo aveva chiaramente intuito quando scriveva già negli anni ’50, in polemica con Freud e Adler, che il bisogno essenziale dell’uomo non è il bisogno di sesso o di potere ma il bisogno di significato.
Galimberti non sembra rendersi conto che il bisogno di significato non nasce solo dal dolore, come egli dice, perché la storia stessa di Buddha, un principe amato dal padre e dalla sua diletta sposa e circondato solo di gioie che esce dal suo giardino incantato per conoscere il mondo e cercare la sua verità, ci dice che quella ricerca del senso della vita può nascere anche dal benessere. E poi, come lo stesso Buddha ci ha insegnato, il dolore è inseparabile dall’esistenza, se non altro perché, come i miei studi sull’angoscia hanno dimostrato, l’emersione della coscienza nel corso dell’evoluzione umana ha portato l’uomo alla coscienza del proprio destino di morte ed alla partecipazione disperata all’agonìa dei propri simili più amati: cosicché tutte le religioni, e non solo quella giudaico-cristiana, possono essere viste come altrettante formazioni reattivo-difensive dinanzi all’angoscia della morte.
Ma, non a caso, la religione stessa, che Galimberti vede solo come lo strumento cruciale della psiche umana per dare un senso alla vita, è risultata meno prioritaria del bisogno di significato nella lotta dell’uomo contro il suo malessere esistenziale. Fin dagli anni ’50, infatti, le ricerche di Herman Feifel sull’angoscia di morte tra i pazienti terminali hanno rivelato che i credenti non erano meno angosciati dei non credenti dinanzi alla morte incombente, mentre i pazienti di gran lunga più sereni sono risultati gli uomini e le donne che sentivano di aver vissuto una vita significativa o, detto altrimenti, di essersi sostanzialmente realizzati. Dinanzi a queste realtà, il sarcasmo con cui Galimberti tratta la ricerca umana di significato e se ne proclama immune appare non un segnale di superiorità intellettuale, ma solo di patetica aridità o rimozione. Del resto, penso che la ragione centrale per cui il pensiero e la società liberale sono approdati all’odierna crisi vada cercata proprio nel fatto che hanno ridotto la libertà a consumismo, l’amore a banalità sessuale e la speranza a scetticismo, senza saper rispondere a questo centrale bisogno umano di significato.
Per parte mia, credo invece che, se le religioni dogmatiche tradizionali appaiono spesso, alla mente dell’uomo moderno, patetiche favolette consolatorie, la religiosità, come perforante percezione e intuizione umana d’una forza che ci trascende e che dà appunto un senso alla nostra vita, non sia affatto da considerare illusoria. Se , come tutto sembra indicare, l’essere umano è la più alta espressione dell’evoluzione vitale, non è assurdo pensare che i sogni di Amore, Bellezza, Giustizia, Armonia, Immortalità, Creatività e Compassione portati dall’uomo in un processo vitale finora sottoposto al dominio di leggi crudeli e monotone, siano anche i sogni della Vita e che noi siamo forse espressione del tentativo della Vita di riorientare il suo corso. Insomma, l’umanesimo liberale mi sembra trovare il suo significato fondamentale in una sorta di religione dell’uomo, in una religiosità che ci fa sentire e capire che siamo portatori d’una rivoluzione cosmica e che è bello vivere e morire per i sogni dell’Uomo e della Vita.
Galimberti, dunque, sembra aver superato ultimamente il disprezzo con cui guardava agli umani in cerca del senso della vita. Ma va detto che, anche quando la ricerca del senso della vita non gli passava neppure per l'anticamera del cervello, il senso della carriera e del successo, in questa Italia governata dal sinistrese post-comunista, non gli è mai mancato. Così, per esempio, mentre ha acutamente e precocemente segnalato l'importanza cruciale dell'angoscia esistenziale nella genesi del malessere umano, si è ben guardato dall'entrare in conflitto aperto con la psicoanalisi freudiana, pur sapendo benissimo che Freud e tutto il suo movimento hanno fatto della negazione dell'angoscia di morte la pietra angolare del loro sistema teorico e professionale.
Del resto, la coerenza non è mai stata un'esigenza sentita tra i luminari della nostra psicoanalisi. Così, per esempio, Cesare Musatti, padre della psicanalisi italiana, ha fatto la sua fulgida carriera
nella cultura e nell'università italiana militando simultaneamente nell'ortodossia psicoanalitica ed in quella comunista, cioè in due mondi che erano ovviamente incompatibili: quello psicoanalitico che considerava la distruttività parte essenziale e indistruttibile della natura umana e quello comunista che proclamava di voler realizzare una società del tutto pacificata e affratellata e considerava la psicoanalisi un patetico prodotto della corruzione borghese e capitalista.
E, in fondo, questa brillante capacità di evitare ogni conflitto con i propri sponsors politici e culturali coltivando al tempo stesso clamorosa carriera e tacita eresia è una caratteristica d'ogni intellettualetto e intellettualone sinistrese italiano, da sempre.
lunedì 7 settembre 2009
La società aperta e i suoi nemici
Con questo titolo il filosofo austriaco Karl Popper pubblicò nel 1945 un'opera fondamentale in cui indicava in alcuni famosi pensatori (Platone, Aristotele, Friedrich Hegel e Karl Marx) i "cattivi maestri" delle concezioni dogmatiche e chiuse della società umana.
Riflettendo in questi giorni sulle condizioni della cultura occidentale mi sono accorto che i nemici della società aperta sono stati e sono ben più numerosi dei "quattro gatti" (sia pure illustrissimi)denunciati da Popper. Anzitutto, mi è apparso evidente che le società chiuse sono state e sono ben più numerose di quelle figliate da quei pochi "cattivi maestri". Tutte le società primitive, che hanno preceduto di migliaia di anni i "cattivi maestri", e tutte le società storiche (salvo quella greca) che li hanno preceduti o accompagnati per secoli, sono state "società chiuse" che hanno ostacolato o perseguitato il libero pensiero e ogni sviluppo sociale divergente dai dettami del rispettivi dogmatismi religiosi o politici. (Poichè le società primitive oggi vanno molto di moda, mi sembra doveroso ricordare che, per quanto affascinanti siano per noi certi loro valori e modi di vivere, si tratta sempre di società totalizzanti, rimaste immobili per millenni appunto perchè in esse non era nè prevista nè ammessa nessuna deviazione dalle norme rigide e dal "pensiero unico" che le governavano.)
Sopratutto, però, ho dovuto constatare che, anche nel mondo odierno, i nemici dell'Occidente liberale (unica società aperta in un mondo dominato dalle tirannie politiche e religiose) erano molto più numerosi dei seguaci di Hegel o di Marx. Certo questi ultimi hanno avuto un'influenza nefasta nella nascita dei regimi dogmatici più mostruosi del '900, il nazismo e il comunismo, e nella diffusione delle tirannie nazionaliste o comunistoidi in tutto il mondo, ma, almeno nell'Occidente liberale, oggi i suoi numerosissimi nemici non sono più (nè si dichiarano) seguaci di quei "cattivi maestri" ottocenteschi.
E questa realtà ci costringe a constatare ancora una volta l'inadeguatezza dei metodi storici o filosofici adottati dallo stesso Popper ed a constatare che solo un approccio psicologico e psico-culturale consente di capire la diversità dei vari tipi di nemici della società aperta.
Come dicevo questi nemici, nella nostra società, sono ben più numerosi dei seguaci di Hegel o di Marx. Praticamente, anzi, sono la maggioranza stragrande della cosiddetta intelligentsia euro-americana. Questi cosiddetti intellettuali (scrittori, giornalisti, artisti, filosofi o teologi che siano) si dedicano da sempre e con zelo crescente o alla denigrazione dell'Occidente liberale o alla esaltazione e difesa dei suoi nemici.
Beninteso non voglio e non ho mai voluto negare che anche l'Occidente liberale abbia magagne gravi di natura sociale e morale (che, per parte mia, ho cercato sempre di denunciare e rimediare), ma è per lo meno strano che i nostri intellettualetti e intellettualoni più celebrati non si siano minimamente impegnati nella difesa dell'Occidente liberale e nel suo miglioramento graduale, ma abbiano prodigato il loro ingegno solo per denigrarlo e per esaltarne i nemici esterni. E, con buona pace di Popper, questa moltitudine di nemici interni s'ispira solo in minima parte a quei pochi "cattivi maestri"di stampo hegeliano e marxista.
Se però, come accennavo poco sopra, si guarda il fenomeno con la lente della psicologia politica liberale tutto si chiarisce subito. Come i bambocci viziati del '68 e del '78 detestavano le loro famiglie permissive negli anni in cui Cooper proclamava "la morte della famiglia", così, oggi che la famiglia è tornata di moda, molti nostri intellettuali hanno trasferito il loro odio sulla società liberale che li ha generati. Ma il processo, da un punto di vista psicologico o psicopolitico, non è cambiato affatto. In realtà, oggi come nel '68, a guidare le scelte degli intellettualetti e intellettualoni non è tanto questo o quella teoria ma l'"attrazione fatale" che essi sentono per i nemici più rabbiosi della "società aperta". Del resto (e la cosa conferma ulteriormente la superiorità dell'approccio psicologico) anche nel '900 le cose non erano andate molto diversamente. A dettare l'irresponsabile appoggio dato da tanti intelettuali europei alle mostruose tirannie di stampo nazista e comunista non era tanto la loro adesione alle teorie nazionaliste o marxiste quanto la loro attrazione per i nemici giurati dell'Occidente liberale.
Quello del '900 era un gioco già molto pericoloso, che ha rischiato di consegnare il futuro del genere umano a una cricca di dittatori sanguinari. Ma il gioco odierno è molto più pericoloso perchè tende a creare alleanze o complicità con le forze del fanatismo islamico, cioè con un fanatismo che non è controllabile con la forza militare (essendo composto da gente bramosa e sicura di assicurarsi la felicità eterna con la morte in battaglia) ed è ormai vicinissima a impadronirsi delle armi nucleari. Proprio in questi giorni giorni è apparsa sui giornali una foto emblematica: quella del dittatore venezuelano Chavez (idolo di molti nostri intellettualetti per il suo odio furibondo contro l'America e la classe media del suo paese) appassionatamente abbracciato col fanatico dittatore iraniano Ahmadinejad, negatore della shoà, paladino di terroristi e fondamentalisti molto più barbari dei più barbari criminali nazisti e comunisti e prossimo detentore di armi nucleari.
Chi sappia vedere le tragedie nascoste dietro quella foto può meglio intuire la stolta irresponsabilità con cui tanta parte della nostra cultura appoggia ogni alleanza tra i nemici dell'Occidente liberale. E badate bene, non si tratta solo della cultura di sinistra. Proprio oggi "Il Giornale" di Vittorio Feltri ha pubblicato un'ammirata recensione dell'ultimo film di Oliver Stone e delle sue ammirate interviste con i leaders più ferocemente antioccidentali dell'America Latina: da Chavez a Morales a Castro. Sono interviste che mi hanno ricordato quelle di un pennivendolo francese con Hitler, Mussolini e Stalin, pubblicate alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale in un volume intitolato "Je connais ces dictateurs" ("Io conosco davvero questi cosiddetti dittatori"). In quel volume, l'autore presentava un quadro bonario e rassicurante dei tre temuti dittatori, incoraggiando la cultura e la politica capitolarda d'Europa e d'America assai forti anche in quegli anni: esattamente come fanno oggi Oliver Stone e il redattore de"Il Giornale".
Con questo titolo il filosofo austriaco Karl Popper pubblicò nel 1945 un'opera fondamentale in cui indicava in alcuni famosi pensatori (Platone, Aristotele, Friedrich Hegel e Karl Marx) i "cattivi maestri" delle concezioni dogmatiche e chiuse della società umana.
Riflettendo in questi giorni sulle condizioni della cultura occidentale mi sono accorto che i nemici della società aperta sono stati e sono ben più numerosi dei "quattro gatti" (sia pure illustrissimi)denunciati da Popper. Anzitutto, mi è apparso evidente che le società chiuse sono state e sono ben più numerose di quelle figliate da quei pochi "cattivi maestri". Tutte le società primitive, che hanno preceduto di migliaia di anni i "cattivi maestri", e tutte le società storiche (salvo quella greca) che li hanno preceduti o accompagnati per secoli, sono state "società chiuse" che hanno ostacolato o perseguitato il libero pensiero e ogni sviluppo sociale divergente dai dettami del rispettivi dogmatismi religiosi o politici. (Poichè le società primitive oggi vanno molto di moda, mi sembra doveroso ricordare che, per quanto affascinanti siano per noi certi loro valori e modi di vivere, si tratta sempre di società totalizzanti, rimaste immobili per millenni appunto perchè in esse non era nè prevista nè ammessa nessuna deviazione dalle norme rigide e dal "pensiero unico" che le governavano.)
Sopratutto, però, ho dovuto constatare che, anche nel mondo odierno, i nemici dell'Occidente liberale (unica società aperta in un mondo dominato dalle tirannie politiche e religiose) erano molto più numerosi dei seguaci di Hegel o di Marx. Certo questi ultimi hanno avuto un'influenza nefasta nella nascita dei regimi dogmatici più mostruosi del '900, il nazismo e il comunismo, e nella diffusione delle tirannie nazionaliste o comunistoidi in tutto il mondo, ma, almeno nell'Occidente liberale, oggi i suoi numerosissimi nemici non sono più (nè si dichiarano) seguaci di quei "cattivi maestri" ottocenteschi.
E questa realtà ci costringe a constatare ancora una volta l'inadeguatezza dei metodi storici o filosofici adottati dallo stesso Popper ed a constatare che solo un approccio psicologico e psico-culturale consente di capire la diversità dei vari tipi di nemici della società aperta.
Come dicevo questi nemici, nella nostra società, sono ben più numerosi dei seguaci di Hegel o di Marx. Praticamente, anzi, sono la maggioranza stragrande della cosiddetta intelligentsia euro-americana. Questi cosiddetti intellettuali (scrittori, giornalisti, artisti, filosofi o teologi che siano) si dedicano da sempre e con zelo crescente o alla denigrazione dell'Occidente liberale o alla esaltazione e difesa dei suoi nemici.
Beninteso non voglio e non ho mai voluto negare che anche l'Occidente liberale abbia magagne gravi di natura sociale e morale (che, per parte mia, ho cercato sempre di denunciare e rimediare), ma è per lo meno strano che i nostri intellettualetti e intellettualoni più celebrati non si siano minimamente impegnati nella difesa dell'Occidente liberale e nel suo miglioramento graduale, ma abbiano prodigato il loro ingegno solo per denigrarlo e per esaltarne i nemici esterni. E, con buona pace di Popper, questa moltitudine di nemici interni s'ispira solo in minima parte a quei pochi "cattivi maestri"di stampo hegeliano e marxista.
Se però, come accennavo poco sopra, si guarda il fenomeno con la lente della psicologia politica liberale tutto si chiarisce subito. Come i bambocci viziati del '68 e del '78 detestavano le loro famiglie permissive negli anni in cui Cooper proclamava "la morte della famiglia", così, oggi che la famiglia è tornata di moda, molti nostri intellettuali hanno trasferito il loro odio sulla società liberale che li ha generati. Ma il processo, da un punto di vista psicologico o psicopolitico, non è cambiato affatto. In realtà, oggi come nel '68, a guidare le scelte degli intellettualetti e intellettualoni non è tanto questo o quella teoria ma l'"attrazione fatale" che essi sentono per i nemici più rabbiosi della "società aperta". Del resto (e la cosa conferma ulteriormente la superiorità dell'approccio psicologico) anche nel '900 le cose non erano andate molto diversamente. A dettare l'irresponsabile appoggio dato da tanti intelettuali europei alle mostruose tirannie di stampo nazista e comunista non era tanto la loro adesione alle teorie nazionaliste o marxiste quanto la loro attrazione per i nemici giurati dell'Occidente liberale.
Quello del '900 era un gioco già molto pericoloso, che ha rischiato di consegnare il futuro del genere umano a una cricca di dittatori sanguinari. Ma il gioco odierno è molto più pericoloso perchè tende a creare alleanze o complicità con le forze del fanatismo islamico, cioè con un fanatismo che non è controllabile con la forza militare (essendo composto da gente bramosa e sicura di assicurarsi la felicità eterna con la morte in battaglia) ed è ormai vicinissima a impadronirsi delle armi nucleari. Proprio in questi giorni giorni è apparsa sui giornali una foto emblematica: quella del dittatore venezuelano Chavez (idolo di molti nostri intellettualetti per il suo odio furibondo contro l'America e la classe media del suo paese) appassionatamente abbracciato col fanatico dittatore iraniano Ahmadinejad, negatore della shoà, paladino di terroristi e fondamentalisti molto più barbari dei più barbari criminali nazisti e comunisti e prossimo detentore di armi nucleari.
Chi sappia vedere le tragedie nascoste dietro quella foto può meglio intuire la stolta irresponsabilità con cui tanta parte della nostra cultura appoggia ogni alleanza tra i nemici dell'Occidente liberale. E badate bene, non si tratta solo della cultura di sinistra. Proprio oggi "Il Giornale" di Vittorio Feltri ha pubblicato un'ammirata recensione dell'ultimo film di Oliver Stone e delle sue ammirate interviste con i leaders più ferocemente antioccidentali dell'America Latina: da Chavez a Morales a Castro. Sono interviste che mi hanno ricordato quelle di un pennivendolo francese con Hitler, Mussolini e Stalin, pubblicate alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale in un volume intitolato "Je connais ces dictateurs" ("Io conosco davvero questi cosiddetti dittatori"). In quel volume, l'autore presentava un quadro bonario e rassicurante dei tre temuti dittatori, incoraggiando la cultura e la politica capitolarda d'Europa e d'America assai forti anche in quegli anni: esattamente come fanno oggi Oliver Stone e il redattore de"Il Giornale".
La cultura vedovile dei sessantottini (2003)
Il cinema italiano, di cui molti si affannano a celebrare la rinascita, dopo averci dato brevi momenti di speranza con film come “Pane e tulipani” di Soldini o “Prendimi l’anima” di Faenza o “Il cuore altrove” di Avati, sembra ripiombare nel clima mortuario creato instancabilmente dalla cultura vedovile del sinistrese.
La cultura del sinistrese ha prodotto sempre in abbondanza orfani e vedove, anche per via della sua attrazione fatale per le armi da fuoco. Ma qui alludo alle orfanezze e alle vedovanze psicologiche. In fondo, gran parte dei brigatisti, in quanto virgulti dell’integralismo cattolico, erano e sono tutti orfani del Padreterno. Quando, fermandosi alla prima parte della famosa battuta di Woody Allen, si convinsero che Dio era morto si precipitarono a sostituire la sua icona con quelle di Carlo Marx e di Mao Tze Tung. Ma l’inesorabile battuta di Woody li ha inseguiti anche nel loro nuovo culto, costringendoli in pochi anni a rendersi conto che, oltre a Dio, erano morti anche Marx e Mao. Ed a quel punto il sinistrese produsse in serie le vedove del maoismo: in Francia Bernard Henry Levy e André Gluksmann e qui da noi i vari Mieli, Lehrner, Ferrara, Liguori e compagni.
Le vedove del maoismo, però, non furono il male peggiore, perché si trattava di vedove allegre, pronte a consolarsi subito con nuovi appassionati amori, magari con gli avversari storici dei loro defunti consorti: volta a volta papi, cardinali, magnati o leaders socialdemocratici, conservatori e perfino postfascisti
Il male peggiore, sul piano culturale, sono state le vedove inconsolabili, quelle che non riescono a elaborare il loro lutto (come si dice in psicoanalisi) e passano la vita a ricordare, rievocare e rimpiangere gli amori e gli amanti perduti dei loro anni cosiddetti formidabili. Così, il risorto (o rimorto ? ) cinema italiano ha ricominciato a rifilarci uno dopo l’altro queste evocazioni delle vedove inconsolabili presentandoci il comunismo come un Caro Estinto, anche se in realtà era ben poco caro, ben poco carino e ben molto carogna. E così quest’anno il grande schermo è stato invaso dalle autocelebrazioni delle vedove inconsolabili: prima ci siamo dovuti sciroppare le sei ore di Tullio Giordana e della sua meglio gioventù mentre il settembre nero appena iniziato ci ha già scodellato i “Segreti di Stato” di Paolo Benvenuti (una storia romanzata della morte del Bandito Giuliano e della strage di Portella delle Ginestre ove i Buoni sono naturalmente i comunisti, che versavano il loro sangue generoso per sbarcarci nel Paradiso stalinista dei Lavoratori, ed i Cattivi sono ancor più naturalmente i democristiani e gli americani che tentavano, purtroppo con successo, di chiuderci le porte di quel Paradiso). E ora ci arriva tra capo e collo il capolavoro di Marco Bellocchio, “Buongiorno Notte”, proclamato subito vincitore morale del Festival di Venezia dalla nostra cultura vedovile.
Dirò subito che il film non l’ho ancora visto e che sono dispostissimo a credere che si tratti di un buon film, anzi del capolavoro di Bellocchio: un capolavoro peraltro non difficile da realizzare perché, dopo “I pugni in tasca”, la sua ottima opera prima di quasi 40 anni fa, Bellocchio era caduto in un minestrone di psicoanalisi e Fagioli e non aveva prodotto più niente d’interessante. Ma, al di là del merito intrinseco del film, quello che mi ha sbalordito è stata la crisi isterica dell’autore (che se n’è andato da Venezia sbattendo la porta) e di molti suoi fans della cultura vedovile.
Anzitutto mi ha colpito l’autocompiaciuto provincialismo in cui si muove (anzi in cui si è pietrificata) gran parte della cultura italiana. Come ci si può meravigliare che una giuria internazionale bombardata dai drammatici eventi del mondo odierno non si sia sentita gran che coinvolta dalla vicenda d’un uomo politico italiano arrivato ai vertici del successo per i suoi capolavori d’ambiguità (chi non ricorda la sublime, enigmatica formula delle “convergenze parallele”?) e poi sequestrato e assassinato da un gruppetto d’imbecilli che, con sessant’anni di ritardo, tentavano di risuscitare nei tinelli dei tricamere italiani un modello di rivoluzione leninista già ripetutamente morto e sepolto nella sua patria ?
Mi ha colpito anche la patetica riflessione di Bellocchio su quel dramma: “Ai tempi del delitto Moro – ha dichiarato a non so quale TG – io sperai fino all’ultimo che nella patria di Machiavelli si sarebbe trovata una soluzione meno cruenta”. Santa ingenuità ! E non solo perché fu proprio Machiavelli a scrivere nel “Principe” che “i nemici è meglio spegnerli che perdonarli”, ma anche perché è stata la multisecolare tradizione machiavellica di doppiezza ad addestrare i politici italiani (dai fascisti ai comunisti ai democristiani e, forse, allo stesso Moro) a preferire alla chiarezza e alla coerenza quei giochi di furbizia in cui restano regolarmente impaniati.
Del resto, la stessa cultura vedovile che ha prodotto il film di Bellocchio, e tanti altri ne produrrà, è figlia della doppiezza, della costituzionale incapacità cattocomunista a comportarsi con semplicità e coerenza. Perché siamo afflitti da tutte queste vedove del ’68 e del ’78 ? Semplicemente perché tutti questi intellettuali tormentatissimi non hanno mai avuto il coraggio di dire a se stessi e agli altri queste poche, oneste e semplici parole: “Ho creduto ciecamente, con decenni di ritardo, in una idiozia politica naufragata già cinquant’anni prima nel sangue e nella vergogna, ho screditato e diffamato la socialdemocrazia e tutti gli altri partiti liberaldemocratici e, tenendo ben stretti i miei privilegi di figlio o figlia di papà, ho messo in scena una rivoluzione da operetta che ha ritardato di altri decenni la modernizzazione culturale del paese. Devo quindi molte, solenni scuse ai miei concittadini che hanno avuto l’intelligenza e la saggezza di non seguirmi nel mio cammino demenziale. E mi propongo di scendere finalmente dalla mia cattedra ridicola, di ascoltare per un congruo numero di anni i pochi intellettuali indipendenti che ho trattato per tanto tempo con grottesca supponenza e di lavorare con sincerità per il rafforzamento della liberaldemocrazia che ho, così a lungo, odiosamente derisa e combattuta.”
Purtroppo, non avendo mai avuto questo pizzico di coraggio e di umiltà, gli intellettuali del sinistrese sono condannati a portare avanti il loro ruolo barboso di vedove inconsolabili, di geni incompresi e di garibaldini in pensione.
Il cinema italiano, di cui molti si affannano a celebrare la rinascita, dopo averci dato brevi momenti di speranza con film come “Pane e tulipani” di Soldini o “Prendimi l’anima” di Faenza o “Il cuore altrove” di Avati, sembra ripiombare nel clima mortuario creato instancabilmente dalla cultura vedovile del sinistrese.
La cultura del sinistrese ha prodotto sempre in abbondanza orfani e vedove, anche per via della sua attrazione fatale per le armi da fuoco. Ma qui alludo alle orfanezze e alle vedovanze psicologiche. In fondo, gran parte dei brigatisti, in quanto virgulti dell’integralismo cattolico, erano e sono tutti orfani del Padreterno. Quando, fermandosi alla prima parte della famosa battuta di Woody Allen, si convinsero che Dio era morto si precipitarono a sostituire la sua icona con quelle di Carlo Marx e di Mao Tze Tung. Ma l’inesorabile battuta di Woody li ha inseguiti anche nel loro nuovo culto, costringendoli in pochi anni a rendersi conto che, oltre a Dio, erano morti anche Marx e Mao. Ed a quel punto il sinistrese produsse in serie le vedove del maoismo: in Francia Bernard Henry Levy e André Gluksmann e qui da noi i vari Mieli, Lehrner, Ferrara, Liguori e compagni.
Le vedove del maoismo, però, non furono il male peggiore, perché si trattava di vedove allegre, pronte a consolarsi subito con nuovi appassionati amori, magari con gli avversari storici dei loro defunti consorti: volta a volta papi, cardinali, magnati o leaders socialdemocratici, conservatori e perfino postfascisti
Il male peggiore, sul piano culturale, sono state le vedove inconsolabili, quelle che non riescono a elaborare il loro lutto (come si dice in psicoanalisi) e passano la vita a ricordare, rievocare e rimpiangere gli amori e gli amanti perduti dei loro anni cosiddetti formidabili. Così, il risorto (o rimorto ? ) cinema italiano ha ricominciato a rifilarci uno dopo l’altro queste evocazioni delle vedove inconsolabili presentandoci il comunismo come un Caro Estinto, anche se in realtà era ben poco caro, ben poco carino e ben molto carogna. E così quest’anno il grande schermo è stato invaso dalle autocelebrazioni delle vedove inconsolabili: prima ci siamo dovuti sciroppare le sei ore di Tullio Giordana e della sua meglio gioventù mentre il settembre nero appena iniziato ci ha già scodellato i “Segreti di Stato” di Paolo Benvenuti (una storia romanzata della morte del Bandito Giuliano e della strage di Portella delle Ginestre ove i Buoni sono naturalmente i comunisti, che versavano il loro sangue generoso per sbarcarci nel Paradiso stalinista dei Lavoratori, ed i Cattivi sono ancor più naturalmente i democristiani e gli americani che tentavano, purtroppo con successo, di chiuderci le porte di quel Paradiso). E ora ci arriva tra capo e collo il capolavoro di Marco Bellocchio, “Buongiorno Notte”, proclamato subito vincitore morale del Festival di Venezia dalla nostra cultura vedovile.
Dirò subito che il film non l’ho ancora visto e che sono dispostissimo a credere che si tratti di un buon film, anzi del capolavoro di Bellocchio: un capolavoro peraltro non difficile da realizzare perché, dopo “I pugni in tasca”, la sua ottima opera prima di quasi 40 anni fa, Bellocchio era caduto in un minestrone di psicoanalisi e Fagioli e non aveva prodotto più niente d’interessante. Ma, al di là del merito intrinseco del film, quello che mi ha sbalordito è stata la crisi isterica dell’autore (che se n’è andato da Venezia sbattendo la porta) e di molti suoi fans della cultura vedovile.
Anzitutto mi ha colpito l’autocompiaciuto provincialismo in cui si muove (anzi in cui si è pietrificata) gran parte della cultura italiana. Come ci si può meravigliare che una giuria internazionale bombardata dai drammatici eventi del mondo odierno non si sia sentita gran che coinvolta dalla vicenda d’un uomo politico italiano arrivato ai vertici del successo per i suoi capolavori d’ambiguità (chi non ricorda la sublime, enigmatica formula delle “convergenze parallele”?) e poi sequestrato e assassinato da un gruppetto d’imbecilli che, con sessant’anni di ritardo, tentavano di risuscitare nei tinelli dei tricamere italiani un modello di rivoluzione leninista già ripetutamente morto e sepolto nella sua patria ?
Mi ha colpito anche la patetica riflessione di Bellocchio su quel dramma: “Ai tempi del delitto Moro – ha dichiarato a non so quale TG – io sperai fino all’ultimo che nella patria di Machiavelli si sarebbe trovata una soluzione meno cruenta”. Santa ingenuità ! E non solo perché fu proprio Machiavelli a scrivere nel “Principe” che “i nemici è meglio spegnerli che perdonarli”, ma anche perché è stata la multisecolare tradizione machiavellica di doppiezza ad addestrare i politici italiani (dai fascisti ai comunisti ai democristiani e, forse, allo stesso Moro) a preferire alla chiarezza e alla coerenza quei giochi di furbizia in cui restano regolarmente impaniati.
Del resto, la stessa cultura vedovile che ha prodotto il film di Bellocchio, e tanti altri ne produrrà, è figlia della doppiezza, della costituzionale incapacità cattocomunista a comportarsi con semplicità e coerenza. Perché siamo afflitti da tutte queste vedove del ’68 e del ’78 ? Semplicemente perché tutti questi intellettuali tormentatissimi non hanno mai avuto il coraggio di dire a se stessi e agli altri queste poche, oneste e semplici parole: “Ho creduto ciecamente, con decenni di ritardo, in una idiozia politica naufragata già cinquant’anni prima nel sangue e nella vergogna, ho screditato e diffamato la socialdemocrazia e tutti gli altri partiti liberaldemocratici e, tenendo ben stretti i miei privilegi di figlio o figlia di papà, ho messo in scena una rivoluzione da operetta che ha ritardato di altri decenni la modernizzazione culturale del paese. Devo quindi molte, solenni scuse ai miei concittadini che hanno avuto l’intelligenza e la saggezza di non seguirmi nel mio cammino demenziale. E mi propongo di scendere finalmente dalla mia cattedra ridicola, di ascoltare per un congruo numero di anni i pochi intellettuali indipendenti che ho trattato per tanto tempo con grottesca supponenza e di lavorare con sincerità per il rafforzamento della liberaldemocrazia che ho, così a lungo, odiosamente derisa e combattuta.”
Purtroppo, non avendo mai avuto questo pizzico di coraggio e di umiltà, gli intellettuali del sinistrese sono condannati a portare avanti il loro ruolo barboso di vedove inconsolabili, di geni incompresi e di garibaldini in pensione.
Iscriviti a:
Post (Atom)