Tzvetan Todorov, critico, storico e filosofo nonché direttore del celebrato Centre National de Recherche Sociale di Parigi, ha tentato finalmente una radicale demolizione del mito del ‘68 con un breve saggio presentato solennemente da “Repubblica” in un paginone della sua rubrica “Idee”. Come ho già avuto modo di segnalare altre volte, la nostra provinciale cultura dominante , mentre imbavaglia sistematicamente le voci italiane innovative, è sempre pronta al panegirico dei novatori d’oltralpe, anche se le loro “scoperte” arrivano con anni o decenni di ritardo rispetto ai propri disprezzati connazionali.
Il fenomeno, a proposito dei miti sinistresi, si propose già al tempo dei cosiddetti “nuovi filosofi” francesi, che vennero proiettati di colpo nel firmamento dei grandi pensatori solo per aver detto, sulle odiose dittature comuniste, le stesse cose che i liberali o i socialdemocratici europei dicevano da decenni tra gl’insulti e gli scherni degl’intellettualoni sinistresi. E ricordo che, nella rivista dell’Istituto Reich, già nel marzo ’78, commentavo l’evento con queste parole ironiche: “L’ascesa vertiginosa di questi signori risponde ai tragicomici requisiti del nostro mondo culturale. Così, “L’Espresso” li ha posti al centro di un clamoroso dibattito dopo aver costantemente ignorato le analoghe tesi che Luciano Pellicani, Domenico Settembrini o io stesso andavamo esponendo da molti anni nei nostri libri. Noi, poveretti, non avevamo la fortuna di essere stranieri…”
E due o tre anni fa l’accoglienza trionfale si era riproposta per Alain Finkielkraut, osannato dai nostri giornali per aver osato dire che la rivolta delle banlieux parigine, presentata dai soliti sociologi e politologi di batteria come il prodotto delle ingiustizie economiche capitaliste, era in realtà espressione dell’odio antioccidentale diffuso tra i giovani immigrati di seconda o terza generazione dal fanatismo islamico.
Oggi è la volta di Todorov. Questi, già nell’apertura del suo saggio, formula una distinzione basilare tra le conquiste socio-culturali e l’ideologia politica del ’68:
“In quegli anni – egli scrive – vennero sormontate alcuni inibizioni, in particolare nei rapporti sessuali, ed è bene ricordare che un anno prima, in Francia, si era diffusa la contraccezione. Che una coppia andasse a coabitare senza sposarsi smise di essere motivo di stigmatizzazione morale. Sulla scia di tutto ciò, qualche anno più tardi anche la rottura del vincolo matrimoniale non sarebbe più stata vista come una colpa: divenne possibile il divorzio per ragioni consensuali. Ebbene, chi vorrebbe liquidare queste conquiste ? Per la politica, invece, le cose andarono in tutt’altro modo. Mentre sul piano del costume soffiava un vento di liberazione, i discorsi politici esalavano dogmatismo ed esaltavano (magari solo implicitamente) l’imposizione della dittatura”.
E poco più avanti Todorov scrive: “I programmi politici dei partiti si possono dividere in due gruppi. I primi, sostituti delle religioni, promettono la salvezza e un qualche paradiso in terra…Gli altri si accontentano di proporre vari livelli di miglioramento, anche accettando qualche compromesso”.
Insomma, Todorov dice cose sensate, ma molto tardive e approssimative rispetto alle analisi proposte per oltre quarant’anni dalla mia Psicologia Politica Liberale nel silenzio o nella derisione della cultura egemone. Perché la psicologia politica liberale non si è limitata a denunciare già negli anni ’60, ’70 e ’80 il “tradimento” degli ideali libertari e non violenti dei Figli dei Fiori e degli altri anticipatori del ’68 perpetrato dai marxisti-leninisti, che confiscarono e pervertirono in forme arroganti e sanguinose la rivolta giovanile e il suo motto “Fate l’amore, non la guerra”. Essa ha anche analizzato le motivazioni psicologiche di quel tradimento ed ha chiarito i meccanismi psicologici che collegano il fanatismo politico a quello religioso.
Ma i limiti del Todorov-pensiero emergono anche nel parallelo, che egli tenta, tra il ’68 e il movimento neo-con americano. Secondo lui, dunque, come i leninisti e i maoisti, anche i neo-con americani distorsero e ribaltarono gli ideali liberali della democrazia americana in senso aggressivo e distruttivo, pretendendo di esportarli con la forza delle armi. Ma è un parallelo molto discutibile, a mio parere, perché i neo-conservatori americani derivavano, appunto, da una tradizione conservatrice, che si era sempre opposta ad ogni tipo di liberalizzazione della vita privata e familiare, in genere, ed amorosa e sessuale, in particolare.
Inoltre, come si è visto, Todorov indica nell’idea politica e religiosa di rigenerazione sociale la matrice dell’intolleranza e della violenza. Ma è una conclusione molto superficiale. In realtà, la discriminante non sta nell’idea stessa di rinascita sociale, ma nei modi – tolleranti o intolleranti, pacifici o violenti – con cui si tenta di realizzare questa rinascita. E questi modi, tanto per cambiare, sono dettati dalla struttura psicologica dogmatica dei militanti e dei leaders. Difatti, come tutti sappiamo, la violenza non è venuta solo dai rivoluzionari dogmatici (leninisti, stalinisti, trotzkisti, maoisti o castristi che fossero) ma anche dai conservatori dogmatici (fascisti, nazisti, franchisti o peronisti che fossero) e dai religiosi integralisti i quali hanno spesso ostentato idee addirittura reazionarie.
Insomma, come sostiene da decenni la nostra psicologia politica liberale, il fulcro della violenza politica o religiosa non sta nell’ideologia o nell’economia, ma nella psicologia dei capi e dei seguaci. E la nostra cultura provinciale farebbe bene a uscire dal suo torpore e da quello dei suoi torpidi idoli stranieri, utilizzando gli strumenti psicopolitici che ha da decenni sotto il naso.
lunedì 31 agosto 2009
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