sabato 7 novembre 2009

Halloween, Giallo, Horror e Sogno Angoscioso

Halloween, Giallo, Horror, Sogno Angoscioso:
tutte conferme delle mie teorie psicologiche

Come segnalavo nei giorni scorsi, la Festa di Halloween (che ha le sue radici in Europa e in Italia, con buona pace dei soliti “yankofobi” nostrani e delle loro barbose polemiche antiamericane), mi sembra costituire un evidente tentativo di esorcizzare l’angoscia della morte e, quindi, un’evidente conferma delle mie teorie psicologiche, che vedono appunto in quell’angoscia, in aperto contrasto con le teorie dominanti in campo psicologico e psicoterapico, la fonte primaria non solo della psicopatologia individuale e sociale ma anche di molte manifestazioni culturali tradizionali.
Insomma, l’emersione della coscienza e, con essa, dell’angoscia di morte nella psiche umana non è stata solo la matrice delle follìe fanatiche e stragiste segnalate nei miei libri: guerre sante o rivoluzionarie, terrorismo, esplosione demografica. Essa è stata anche all’origine d’una evoluzione emozionale e intellettuale che ha prodotto le più alte creazioni dello spirito umano (l’arte stessa può essere vista come espressione della nostra brama d’immortalità), cosicché l’Uomo, tormentata ma prodigiosa creatura del laboratorio cosmico, pur essendo spesso impazzito per le tremende tensioni della sua condizione esistenziale, è anche riuscito ad inventarsi sogni d’Amore, di Armonia, di Bellezza, di Compassione, di Giustizia, di Libertà, di Felicità sconfinata da contrapporre alla giungla spietata e ripetitiva della Natura.
E persino la festa di Halloween, con i suoi precedenti europei e italiani, si può inquadrare nell’ampia gamma di espressioni reattivo-difensive all’angoscia di morte che hanno caratterizzato le culture umane. Come si diceva, si è trattato spesso di espressioni che, senza dubbio, hanno prodotto le forme più atroci di distruttività tra gli umani. Ma, per fortuna, le difese erette contro l’angoscia primaria dell’uomo non sono state sempre e soltanto sanguinose. A volte, come nel caso di Halloween, le culture umane hanno saputo esorcizzare l’angoscia della morte con la risata: una risata affidata in Halloween ai bambini, simboli della vita che rinasce e che trionfa sulla morte. Non a caso, un grande scrittore italiano che mi ha onorato della sua amicizia, Giuseppe Berto, ha scritto una volta: “L’umorismo è l’estrema via di scampo dalla tragedia umana”.
La mia teoria della nevrosi e della cultura, comunque, può spiegare non solo la Festa di Halloween ma anche altri fenomeni culturali apparentemente contrastanti con la teoria stessa: penso ai libri e ai film gialli e al filone “horror”. Sia il giallo che il filone horror sembrano infatti attestare una grande e diffusa attrazione e passione per storie e situazioni intrise di morte e di angoscia della morte.
Ma, se esaminiamo questo fenomeno paradossale alla luce delle mie teorie psicologiche, non tardiamo ad accorgerci che quelle storie e situazioni sono altrettanti strumenti con cui tentiamo di “esportare” su altri (persone o personaggi) i nostri rischi e le nostre angosce di morte e, non di rado, anche di assicurare a quei rischi e a quelle angosce una qualche forma di “lieto fine”. Fin dai tempi dei racconti di Edgar Allan Poe, i protagonisti delle storie più terrificanti riescono infatti a scampare alla morte cavandosela, come si usa dire, “per il rotto della cuffia”.

Proprio questo frequente “lieto fine” di tanti racconti e film dell’orrore mi ha costretto a ricordare le mie analisi del sogno angoscioso, che hanno radicalmente confutato la teoria freudiana del sogno. Com’è noto Freud, letteralmente ossessionato dal suo pansessualismo, volle vedere nel sogno sempre e solo la “realizzazione allucinatoria di un desiderio (sessuale)”: e per confermare questa sua ostinata interpretazione, egli fu costretto a vedere in ogni oggetto allungato o concavo (albero o stuzzicadenti, crepaccio o tazzina che fosse) altrettanti simboli fallici o vaginali.
E poiché la maggior parte dei nostri sogni non raccontano affatto situazioni eccitanti ed erotiche ma, al contrario, angoscianti e minacciose, egli dovette sostenere che quell’aspetto angosciante e minaccioso era solo il “travestimento” della pulsione o situazione erotica imposto dalla “censura” inconscia del sognatore o della sognatrice.
Nelle mia ottica psico-esistenziale, viceversa, tutte queste contorsioni logiche appaiono semplicemente insensate o, semmai, “travestimenti” con cui Freud stesso ed i suoi epigoni hanno tentato di mascherare il significato profondo del sogno angoscioso e il terrore della morte che li assediava. Se, infatti, accettiamo l’assunto (ampiamente dimostrato nelle mie opere) che l’angoscia della morte sia l’angoscia primaria della psiche umana, apparirà non solo comprensibile ma inevitabile che essa governi anche la nostra attività onirica, producendo i molti sogni angosciosi che tormentano il nostro sonno. Questi sogni non si limitano però ad esprimere la nostra angoscia. Spesso essi tentano anche di porvi rimedio. E’ molto raro infatti che il sogno angoscioso finisca con la morte del sognante: esattamente come il protagonista dei film horror, il sognante se la cava per il rotto della cuffia autorizzandoci a vedere nel sogno angoscioso il primo e più antico tentativo ideato dalla psiche umana per esorcizzare quell’angoscia.
E a questo punto è giocoforza constatare che la mia teoria dell’angoscia esistenziale primaria ci consente di dare un’interpretazione unitaria e convincente non solo del sogno angoscioso ma anche di fenomeni apparentemente remoti dall’angoscia di morte o dalla dinamica onirica, come il giallo, l’”horror” e la Festa di Halloween.

Halloween, Giallo, Horror, Sogno Angoscioso

domenica 13 settembre 2009

Galimberti, l'intellettualone insensato

Sfogliando "D" (il supplemento femminile di Repubblica,) del 12 sttembre 2009, mi sono imbattuto in uno dei tanti spazi che quella casa editrice accorda a Umberto Galimberti e ho letto un articolo che, sovrstato da una foto di Galimberti in posa di pensatore (con la testa tra le mani e gli occhi di fascinatore puntate sulle lettrici), iniziava così: "Per vivere, l'uomo ha bisogno di costruirsi un senso in vista della morte, che è l'implosione di ogni senso". Confesso che l'incipit mi ha fatto trasecolare, perchè tre anni fa avevo letto, in un'altra lenzuolata di saggezza galimbertiana pubblicata da "Repubblica", parole ben diverse, per non dire opposte:
"Il bisogno di significato - scriveva allora il nostro Umberto - è solo il prodotto d'una cultura, quella giudaico-cristiana, di cui siamo, volenti o nolenti, rampolli". E sentendosi ovviamente superiore a certi bambocceschi bisogni, Galimberti continuava:
"“In realtà devo essere già religioso per pormi il problema del significato della vita. Altrimenti, come nel mio caso, quel problema non mi passa neanche per l’anticamera del cervello. La questione del senso della vita e delle cose nasce infatti all’interno della tradizione giudaico-cristiana”.
Francamente non capisco dove Galimberti traesse questa sua conclusione apodittica. In realtà, la ricerca del significato è un bisogno antico quanto l’uomo: e lo troviamo già nella filosofia greca, di mezzo millennio anteriore alla civiltà cristiana, o nella religione buddista, del tutto indipendente dalla cultura giudaico-cristiana, mentre la credenza in una vita ultraterrena, come credo d’aver dimostrato nella mia opera “Lo shock primario” (Edizioni Rai-Eri, 2002), è testimoniata addirittura nelle sepolture neandertaliane di 80 o 100 mila anni fa. Ed uno dei massimi psicologi di stampo umanistico, Viktor Frankl, lo aveva chiaramente intuito quando scriveva già negli anni ’50, in polemica con Freud e Adler, che il bisogno essenziale dell’uomo non è il bisogno di sesso o di potere ma il bisogno di significato.
Galimberti non sembra rendersi conto che il bisogno di significato non nasce solo dal dolore, come egli dice, perché la storia stessa di Buddha, un principe amato dal padre e dalla sua diletta sposa e circondato solo di gioie che esce dal suo giardino incantato per conoscere il mondo e cercare la sua verità, ci dice che quella ricerca del senso della vita può nascere anche dal benessere. E poi, come lo stesso Buddha ci ha insegnato, il dolore è inseparabile dall’esistenza, se non altro perché, come i miei studi sull’angoscia hanno dimostrato, l’emersione della coscienza nel corso dell’evoluzione umana ha portato l’uomo alla coscienza del proprio destino di morte ed alla partecipazione disperata all’agonìa dei propri simili più amati: cosicché tutte le religioni, e non solo quella giudaico-cristiana, possono essere viste come altrettante formazioni reattivo-difensive dinanzi all’angoscia della morte.
Ma, non a caso, la religione stessa, che Galimberti vede solo come lo strumento cruciale della psiche umana per dare un senso alla vita, è risultata meno prioritaria del bisogno di significato nella lotta dell’uomo contro il suo malessere esistenziale. Fin dagli anni ’50, infatti, le ricerche di Herman Feifel sull’angoscia di morte tra i pazienti terminali hanno rivelato che i credenti non erano meno angosciati dei non credenti dinanzi alla morte incombente, mentre i pazienti di gran lunga più sereni sono risultati gli uomini e le donne che sentivano di aver vissuto una vita significativa o, detto altrimenti, di essersi sostanzialmente realizzati. Dinanzi a queste realtà, il sarcasmo con cui Galimberti tratta la ricerca umana di significato e se ne proclama immune appare non un segnale di superiorità intellettuale, ma solo di patetica aridità o rimozione. Del resto, penso che la ragione centrale per cui il pensiero e la società liberale sono approdati all’odierna crisi vada cercata proprio nel fatto che hanno ridotto la libertà a consumismo, l’amore a banalità sessuale e la speranza a scetticismo, senza saper rispondere a questo centrale bisogno umano di significato.
Per parte mia, credo invece che, se le religioni dogmatiche tradizionali appaiono spesso, alla mente dell’uomo moderno, patetiche favolette consolatorie, la religiosità, come perforante percezione e intuizione umana d’una forza che ci trascende e che dà appunto un senso alla nostra vita, non sia affatto da considerare illusoria. Se , come tutto sembra indicare, l’essere umano è la più alta espressione dell’evoluzione vitale, non è assurdo pensare che i sogni di Amore, Bellezza, Giustizia, Armonia, Immortalità, Creatività e Compassione portati dall’uomo in un processo vitale finora sottoposto al dominio di leggi crudeli e monotone, siano anche i sogni della Vita e che noi siamo forse espressione del tentativo della Vita di riorientare il suo corso. Insomma, l’umanesimo liberale mi sembra trovare il suo significato fondamentale in una sorta di religione dell’uomo, in una religiosità che ci fa sentire e capire che siamo portatori d’una rivoluzione cosmica e che è bello vivere e morire per i sogni dell’Uomo e della Vita.
Galimberti, dunque, sembra aver superato ultimamente il disprezzo con cui guardava agli umani in cerca del senso della vita. Ma va detto che, anche quando la ricerca del senso della vita non gli passava neppure per l'anticamera del cervello, il senso della carriera e del successo, in questa Italia governata dal sinistrese post-comunista, non gli è mai mancato. Così, per esempio, mentre ha acutamente e precocemente segnalato l'importanza cruciale dell'angoscia esistenziale nella genesi del malessere umano, si è ben guardato dall'entrare in conflitto aperto con la psicoanalisi freudiana, pur sapendo benissimo che Freud e tutto il suo movimento hanno fatto della negazione dell'angoscia di morte la pietra angolare del loro sistema teorico e professionale.
Del resto, la coerenza non è mai stata un'esigenza sentita tra i luminari della nostra psicoanalisi. Così, per esempio, Cesare Musatti, padre della psicanalisi italiana, ha fatto la sua fulgida carriera
nella cultura e nell'università italiana militando simultaneamente nell'ortodossia psicoanalitica ed in quella comunista, cioè in due mondi che erano ovviamente incompatibili: quello psicoanalitico che considerava la distruttività parte essenziale e indistruttibile della natura umana e quello comunista che proclamava di voler realizzare una società del tutto pacificata e affratellata e considerava la psicoanalisi un patetico prodotto della corruzione borghese e capitalista.
E, in fondo, questa brillante capacità di evitare ogni conflitto con i propri sponsors politici e culturali coltivando al tempo stesso clamorosa carriera e tacita eresia è una caratteristica d'ogni intellettualetto e intellettualone sinistrese italiano, da sempre.

lunedì 7 settembre 2009

La società aperta e i suoi nemici



Con questo titolo il filosofo austriaco Karl Popper pubblicò nel 1945 un'opera fondamentale in cui indicava in alcuni famosi pensatori (Platone, Aristotele, Friedrich Hegel e Karl Marx) i "cattivi maestri" delle concezioni dogmatiche e chiuse della società umana.



Riflettendo in questi giorni sulle condizioni della cultura occidentale mi sono accorto che i nemici della società aperta sono stati e sono ben più numerosi dei "quattro gatti" (sia pure illustrissimi)denunciati da Popper. Anzitutto, mi è apparso evidente che le società chiuse sono state e sono ben più numerose di quelle figliate da quei pochi "cattivi maestri". Tutte le società primitive, che hanno preceduto di migliaia di anni i "cattivi maestri", e tutte le società storiche (salvo quella greca) che li hanno preceduti o accompagnati per secoli, sono state "società chiuse" che hanno ostacolato o perseguitato il libero pensiero e ogni sviluppo sociale divergente dai dettami del rispettivi dogmatismi religiosi o politici. (Poichè le società primitive oggi vanno molto di moda, mi sembra doveroso ricordare che, per quanto affascinanti siano per noi certi loro valori e modi di vivere, si tratta sempre di società totalizzanti, rimaste immobili per millenni appunto perchè in esse non era nè prevista nè ammessa nessuna deviazione dalle norme rigide e dal "pensiero unico" che le governavano.)



Sopratutto, però, ho dovuto constatare che, anche nel mondo odierno, i nemici dell'Occidente liberale (unica società aperta in un mondo dominato dalle tirannie politiche e religiose) erano molto più numerosi dei seguaci di Hegel o di Marx. Certo questi ultimi hanno avuto un'influenza nefasta nella nascita dei regimi dogmatici più mostruosi del '900, il nazismo e il comunismo, e nella diffusione delle tirannie nazionaliste o comunistoidi in tutto il mondo, ma, almeno nell'Occidente liberale, oggi i suoi numerosissimi nemici non sono più (nè si dichiarano) seguaci di quei "cattivi maestri" ottocenteschi.



E questa realtà ci costringe a constatare ancora una volta l'inadeguatezza dei metodi storici o filosofici adottati dallo stesso Popper ed a constatare che solo un approccio psicologico e psico-culturale consente di capire la diversità dei vari tipi di nemici della società aperta.



Come dicevo questi nemici, nella nostra società, sono ben più numerosi dei seguaci di Hegel o di Marx. Praticamente, anzi, sono la maggioranza stragrande della cosiddetta intelligentsia euro-americana. Questi cosiddetti intellettuali (scrittori, giornalisti, artisti, filosofi o teologi che siano) si dedicano da sempre e con zelo crescente o alla denigrazione dell'Occidente liberale o alla esaltazione e difesa dei suoi nemici.



Beninteso non voglio e non ho mai voluto negare che anche l'Occidente liberale abbia magagne gravi di natura sociale e morale (che, per parte mia, ho cercato sempre di denunciare e rimediare), ma è per lo meno strano che i nostri intellettualetti e intellettualoni più celebrati non si siano minimamente impegnati nella difesa dell'Occidente liberale e nel suo miglioramento graduale, ma abbiano prodigato il loro ingegno solo per denigrarlo e per esaltarne i nemici esterni. E, con buona pace di Popper, questa moltitudine di nemici interni s'ispira solo in minima parte a quei pochi "cattivi maestri"di stampo hegeliano e marxista.



Se però, come accennavo poco sopra, si guarda il fenomeno con la lente della psicologia politica liberale tutto si chiarisce subito. Come i bambocci viziati del '68 e del '78 detestavano le loro famiglie permissive negli anni in cui Cooper proclamava "la morte della famiglia", così, oggi che la famiglia è tornata di moda, molti nostri intellettuali hanno trasferito il loro odio sulla società liberale che li ha generati. Ma il processo, da un punto di vista psicologico o psicopolitico, non è cambiato affatto. In realtà, oggi come nel '68, a guidare le scelte degli intellettualetti e intellettualoni non è tanto questo o quella teoria ma l'"attrazione fatale" che essi sentono per i nemici più rabbiosi della "società aperta". Del resto (e la cosa conferma ulteriormente la superiorità dell'approccio psicologico) anche nel '900 le cose non erano andate molto diversamente. A dettare l'irresponsabile appoggio dato da tanti intelettuali europei alle mostruose tirannie di stampo nazista e comunista non era tanto la loro adesione alle teorie nazionaliste o marxiste quanto la loro attrazione per i nemici giurati dell'Occidente liberale.

Quello del '900 era un gioco già molto pericoloso, che ha rischiato di consegnare il futuro del genere umano a una cricca di dittatori sanguinari. Ma il gioco odierno è molto più pericoloso perchè tende a creare alleanze o complicità con le forze del fanatismo islamico, cioè con un fanatismo che non è controllabile con la forza militare (essendo composto da gente bramosa e sicura di assicurarsi la felicità eterna con la morte in battaglia) ed è ormai vicinissima a impadronirsi delle armi nucleari. Proprio in questi giorni giorni è apparsa sui giornali una foto emblematica: quella del dittatore venezuelano Chavez (idolo di molti nostri intellettualetti per il suo odio furibondo contro l'America e la classe media del suo paese) appassionatamente abbracciato col fanatico dittatore iraniano Ahmadinejad, negatore della shoà, paladino di terroristi e fondamentalisti molto più barbari dei più barbari criminali nazisti e comunisti e prossimo detentore di armi nucleari.

Chi sappia vedere le tragedie nascoste dietro quella foto può meglio intuire la stolta irresponsabilità con cui tanta parte della nostra cultura appoggia ogni alleanza tra i nemici dell'Occidente liberale. E badate bene, non si tratta solo della cultura di sinistra. Proprio oggi "Il Giornale" di Vittorio Feltri ha pubblicato un'ammirata recensione dell'ultimo film di Oliver Stone e delle sue ammirate interviste con i leaders più ferocemente antioccidentali dell'America Latina: da Chavez a Morales a Castro. Sono interviste che mi hanno ricordato quelle di un pennivendolo francese con Hitler, Mussolini e Stalin, pubblicate alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale in un volume intitolato "Je connais ces dictateurs" ("Io conosco davvero questi cosiddetti dittatori"). In quel volume, l'autore presentava un quadro bonario e rassicurante dei tre temuti dittatori, incoraggiando la cultura e la politica capitolarda d'Europa e d'America assai forti anche in quegli anni: esattamente come fanno oggi Oliver Stone e il redattore de"Il Giornale".
La cultura vedovile dei sessantottini (2003)

Il cinema italiano, di cui molti si affannano a celebrare la rinascita, dopo averci dato brevi momenti di speranza con film come “Pane e tulipani” di Soldini o “Prendimi l’anima” di Faenza o “Il cuore altrove” di Avati, sembra ripiombare nel clima mortuario creato instancabilmente dalla cultura vedovile del sinistrese.
La cultura del sinistrese ha prodotto sempre in abbondanza orfani e vedove, anche per via della sua attrazione fatale per le armi da fuoco. Ma qui alludo alle orfanezze e alle vedovanze psicologiche. In fondo, gran parte dei brigatisti, in quanto virgulti dell’integralismo cattolico, erano e sono tutti orfani del Padreterno. Quando, fermandosi alla prima parte della famosa battuta di Woody Allen, si convinsero che Dio era morto si precipitarono a sostituire la sua icona con quelle di Carlo Marx e di Mao Tze Tung. Ma l’inesorabile battuta di Woody li ha inseguiti anche nel loro nuovo culto, costringendoli in pochi anni a rendersi conto che, oltre a Dio, erano morti anche Marx e Mao. Ed a quel punto il sinistrese produsse in serie le vedove del maoismo: in Francia Bernard Henry Levy e André Gluksmann e qui da noi i vari Mieli, Lehrner, Ferrara, Liguori e compagni.
Le vedove del maoismo, però, non furono il male peggiore, perché si trattava di vedove allegre, pronte a consolarsi subito con nuovi appassionati amori, magari con gli avversari storici dei loro defunti consorti: volta a volta papi, cardinali, magnati o leaders socialdemocratici, conservatori e perfino postfascisti
Il male peggiore, sul piano culturale, sono state le vedove inconsolabili, quelle che non riescono a elaborare il loro lutto (come si dice in psicoanalisi) e passano la vita a ricordare, rievocare e rimpiangere gli amori e gli amanti perduti dei loro anni cosiddetti formidabili. Così, il risorto (o rimorto ? ) cinema italiano ha ricominciato a rifilarci uno dopo l’altro queste evocazioni delle vedove inconsolabili presentandoci il comunismo come un Caro Estinto, anche se in realtà era ben poco caro, ben poco carino e ben molto carogna. E così quest’anno il grande schermo è stato invaso dalle autocelebrazioni delle vedove inconsolabili: prima ci siamo dovuti sciroppare le sei ore di Tullio Giordana e della sua meglio gioventù mentre il settembre nero appena iniziato ci ha già scodellato i “Segreti di Stato” di Paolo Benvenuti (una storia romanzata della morte del Bandito Giuliano e della strage di Portella delle Ginestre ove i Buoni sono naturalmente i comunisti, che versavano il loro sangue generoso per sbarcarci nel Paradiso stalinista dei Lavoratori, ed i Cattivi sono ancor più naturalmente i democristiani e gli americani che tentavano, purtroppo con successo, di chiuderci le porte di quel Paradiso). E ora ci arriva tra capo e collo il capolavoro di Marco Bellocchio, “Buongiorno Notte”, proclamato subito vincitore morale del Festival di Venezia dalla nostra cultura vedovile.
Dirò subito che il film non l’ho ancora visto e che sono dispostissimo a credere che si tratti di un buon film, anzi del capolavoro di Bellocchio: un capolavoro peraltro non difficile da realizzare perché, dopo “I pugni in tasca”, la sua ottima opera prima di quasi 40 anni fa, Bellocchio era caduto in un minestrone di psicoanalisi e Fagioli e non aveva prodotto più niente d’interessante. Ma, al di là del merito intrinseco del film, quello che mi ha sbalordito è stata la crisi isterica dell’autore (che se n’è andato da Venezia sbattendo la porta) e di molti suoi fans della cultura vedovile.
Anzitutto mi ha colpito l’autocompiaciuto provincialismo in cui si muove (anzi in cui si è pietrificata) gran parte della cultura italiana. Come ci si può meravigliare che una giuria internazionale bombardata dai drammatici eventi del mondo odierno non si sia sentita gran che coinvolta dalla vicenda d’un uomo politico italiano arrivato ai vertici del successo per i suoi capolavori d’ambiguità (chi non ricorda la sublime, enigmatica formula delle “convergenze parallele”?) e poi sequestrato e assassinato da un gruppetto d’imbecilli che, con sessant’anni di ritardo, tentavano di risuscitare nei tinelli dei tricamere italiani un modello di rivoluzione leninista già ripetutamente morto e sepolto nella sua patria ?
Mi ha colpito anche la patetica riflessione di Bellocchio su quel dramma: “Ai tempi del delitto Moro – ha dichiarato a non so quale TG – io sperai fino all’ultimo che nella patria di Machiavelli si sarebbe trovata una soluzione meno cruenta”. Santa ingenuità ! E non solo perché fu proprio Machiavelli a scrivere nel “Principe” che “i nemici è meglio spegnerli che perdonarli”, ma anche perché è stata la multisecolare tradizione machiavellica di doppiezza ad addestrare i politici italiani (dai fascisti ai comunisti ai democristiani e, forse, allo stesso Moro) a preferire alla chiarezza e alla coerenza quei giochi di furbizia in cui restano regolarmente impaniati.
Del resto, la stessa cultura vedovile che ha prodotto il film di Bellocchio, e tanti altri ne produrrà, è figlia della doppiezza, della costituzionale incapacità cattocomunista a comportarsi con semplicità e coerenza. Perché siamo afflitti da tutte queste vedove del ’68 e del ’78 ? Semplicemente perché tutti questi intellettuali tormentatissimi non hanno mai avuto il coraggio di dire a se stessi e agli altri queste poche, oneste e semplici parole: “Ho creduto ciecamente, con decenni di ritardo, in una idiozia politica naufragata già cinquant’anni prima nel sangue e nella vergogna, ho screditato e diffamato la socialdemocrazia e tutti gli altri partiti liberaldemocratici e, tenendo ben stretti i miei privilegi di figlio o figlia di papà, ho messo in scena una rivoluzione da operetta che ha ritardato di altri decenni la modernizzazione culturale del paese. Devo quindi molte, solenni scuse ai miei concittadini che hanno avuto l’intelligenza e la saggezza di non seguirmi nel mio cammino demenziale. E mi propongo di scendere finalmente dalla mia cattedra ridicola, di ascoltare per un congruo numero di anni i pochi intellettuali indipendenti che ho trattato per tanto tempo con grottesca supponenza e di lavorare con sincerità per il rafforzamento della liberaldemocrazia che ho, così a lungo, odiosamente derisa e combattuta.”
Purtroppo, non avendo mai avuto questo pizzico di coraggio e di umiltà, gli intellettuali del sinistrese sono condannati a portare avanti il loro ruolo barboso di vedove inconsolabili, di geni incompresi e di garibaldini in pensione.

sabato 5 settembre 2009

Amerika, Impero del Male - 0203

Qualche settimana fa ho cercato di analizzare le motivazioni della simpatia, anzi dell’amore sviscerato per i dogmatismi politici e religiosi antiliberali e antioccidentali, che hanno caratterizzato tanta parte della cultura europea dall’inizio del ‘900 ai nostri giorni. E avevo paragonato l’odio infantile e parricida che tanti intellettuali del nostro tempo provano per la società liberale che li ha generati al disprezzo nutrito da tanti rampolli viziati e capricciosi dell’odierna classe media per le loro famiglie permissive. Negli ultimi anni, però, questo furore antioccidentale si è focalizzato sempre più ossessivamente ed esclusivamente sugli Stati Uniti e sugli Americani, da scrivere naturalmente col Kappa per meglio assimilarli, anzi equipararli ai nazisti.
Proprio a questo furore antiamericano un recente numero dell’Espresso dedica un ampio servizio intitolato “Il nemico americano” e costellato di sottotitoli ovviamente compiaciuti come ad esempio: “Nel mondo torna a soffiare il vento contro la superpotenza USA nonchè contro una cultura e uno stile di vita”, oppure “Yankee Go Home: lo slogan di ieri torna a risuonare nelle piazze del mondo intero”.
“Oggi l’America – scrive l’organo magno del nostro sinistrese culturale – pur colpita l’11 settembre 2001 da un terrorismo stragista e fanatico, non gode più delle diffuse simpatie del passato…Per chi dubitasse di tale declino, basterà ricordare che l’America, dopo la guerra irakena, non può contare minimamente sui consensi d’un tempo. Mentre dodici anni fa, al tempo della prima guerra contro Saddam, sette paesi islamici si erano schierati a fianco di Washington, oggi l’opinione pubblica dei paesi islamici non può più accettare di vedere i propri leaders schierati a fianco degli USA. La grande maggioranza è furente nei confronti dell’Impero Americano”…
Naturalmente l’Espresso non si domanda se questa radicale svolta antiamericana non sia stata prodotta anche dall’ambiguità, dalla larvata solidarietà o dall’assistenza clandestina (o addirittura esplicita, come nel caso dei palestinesi) dimostrata nei confronti dei terroristi e dei fanatici da molti regimi islamici desiderosi di dirottare contro Israele e l’Occidente le tensioni esplosive delle loro popolazioni esplodenti.. E tanto meno si domanda quanto abbiano ad essa contribuito i radical-chic che affollano i salotti buoni della vecchia Europa e della vecchissima Italia e le redazioni dei giornali sedicenti progressisti come l’Espresso. Del resto, sarebbe chiedere troppo a giornalisti che sull’antiamericanismo vivono di rendita da qualche decennio.
Ma i brani più comici dell’articolo sono quelli in cui il settimanale tenta di dimostrare che l’America è ormai detestata anche nei paesi liberal-democratici. Utilizzando i risultati di un’ampia indagine condotta dal Pew Research Center su 38.000 cittadini di 44 paesi, l’articolo rileva che, ad esempio, in Germania i cittadini filo-americani sono diminuiti di 17 punti e in Italia di 6 punti, rispetto a un paio d’anni fa. La realtà su cui, tuttavia, si preferisce glissare è che una maggioranza cospicua della popolazione dei paesi europei ( il 61% in Germania e il 70% in Italia, nonostante le piazzate antiamericane) continua ad appoggiare l’America.
La strana cronaca demoscopica proposta dall’Espresso mi ha ricordato quella dello scontro vittorioso con un rivale fatta da Woody Allen alla sua ragazza: “Gli ho assetato una labbrata alla scarpa, una nasata sul ginocchio e una palpebrata sul pugno”…


Ho già avuto modo di segnalare alcune ragioni di questo isterismo antiliberale dilagante tra certi giovanottini e certi intellettualetti nostrani: e cioè l’attrazione fatale delle personalità autoritario-gregaristiche per i regimi tirannici. Credo tuttavia che dobbiamo aggiungere, nel caso dell’antiamericanismo, il provincialismo della nostra cultura ed il suo cronico complesso d’inferiorità verso la superpotenza egemone. E’ un complesso d’inferiorità rivelato del resto quotidianamente da questi signori che quando, nelle loro manifestazioni, imprecano contro l’America, lo fanno indossando indumenti e adottando mode di stampo rigorosamente americano (dai jeans alle scarpe da tennis alle T-shirts con scritte universitarie o battute sexy d’oltreocceano), tanto da apparire i gemelli cattivi dell’”Americano de Roma” magistralmente interpretato 40 anni fa da Alberto Sordi.
Tutto ciò sarebbe anche da ridere, se non fosse da piangere. Perché questo isterismo antiamericano sta mettendo in grave pericolo il bene supremo non solo della nostra libertà ma anche di quella delle generazioni avvenire: e precisamente l’unità dell’Occidente liberal-democratico, unica isola di tolleranza e convivenza liberale, dinanzi ad un mondo, quello islamico, dominato da regimi sempre tirannici e spesso sanguinari e sempre più estesamente inquinato dal fanatismo religioso.
Beninteso questa unità non deve di certo comportare un ossequio servile alla politica americana ed alle sue molte scemenze (scemenze d’altronde condivise da vari altri governi): come ad esempio la sistematica tendenza a vedere i regimi tirannici solo come alleati o come nemici, alternando l’appoggio finanziario e politico alle bombe e rinunciando sempre all’alternativa vincente, quella cioè di avviare i loro popoli alla democrazia sia bombardando le loro masse femminili e giovanili con i nostri messaggi di libertà non solo politica ma anche amorosa, sia condizionando ogni aiuto economico e tecnico alla legittimazione di forze liberali sui loro territori. Ma nessuna persona di buon senso dovrebbe comunque arrivare a mettere in discussione la suprema esigenza dell’unità occidentale dinanzi al fanatismo islamico: una minaccia planetaria al cui confronto quella a suo tempo incarnata dal fanatismo nazista (e quotidianamente evocata dalla demagogia nostrana) appare una burletta provinciale.
AIDS, la truffa del vaccino - 2004

Pochi giorni fa un grande giornale romano ha annunciato solennemente che i benemeriti ricercatori impegnati nella lotta contro l’Aids erano ormai a un tiro di schioppo dalla realizzazione del vaccino capace di mettere l’umanità al riparo dalla minaccia della cosiddetta peste del 2000. La notizia, però, è passata pressoché inosservata o sottaciuta. Perché ?
Per tre validi motivi che, peraltro, sono anch’essi stati sottaciuti. Anzitutto perché, come nella favola del pastorello che gridava “Al lupo, al lupo !”, nessuno prende più sul serio la periodica alternanza di terrorismo e di speranza che caratterizza le comunicazioni della cosiddetta scienza ufficiale (molto ufficiale ma ben poco scienza) in tema di Aids. Troppe volte il terrorismo si è rivelato una truffa irresponsabile.
Basterà ricordare che, come ho ricordato in altre occasioni, se fossero stati veri gli allarmi diffusi dal nostro Ministero della Sanità nel 1988 (200 mila sieropositivi che raddoppiavano ogni 10 mesi e avevano una sopravvivenza media di 18 mesi) tutti gli Italiani (voi e me compresi) sarebbero morti di Aids da ormai sei anni. E pochi ricordano che quel Ministero emanò nello stesso anno un apposito comunicato per deplorare le documentate informazioni da me diffuse per rassicurare la popolazione circa l’assurda esagerazione della pericolosità dell’Aids. Ma sarà utile ricordare anche che per anni fu annunciato che, negli Stati della California e di New York l’Aids era diventato la prima causa di morte per i maschi tra i 25 e i 45 anni, proprio mentre in quegli stessi e in quella stessa popolazione la mortalità era calata. E sarà ancor più utile ricordare che, quando gli allarmi periodici si rivelarono ovviamente infondati nell’Occidente avanzato, il terrorismo fu spostato sull’Africa. Ma anche qui, mentre i cosiddetti esperti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e lo stesso segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, annunciavano periodicamente l’apocalisse (“Chi non vive in Africa – disse Annan – ancora non si rende conto della gravità della tragedia...L’Africa muore...Un’intera generazione di bambini sta perdendo i propri genitori a causa dell’Aids”.
In realtà, questa “intera generazione di bambini africani che sta perdendo i propri genitori” è una vecchia, scandalosa menzogna che due noti e coraggiosi animatori delle battaglie umanitarie in Africa, i coniugi Krynen, hanno invano smascherato già nel 1993.
Devo quindi riassumere qui l’odissea tragicomica di Philippe ed Evelybe Krynen, che ho ampiamente raccontato nel mio libro “AIDS, la grande truffa”, pubblicato dall’editrice SEAM nel 1996. Avendo appreso che la loro unione era destinata a restare sterile, nel 1989 i coniugi Krynen decisero di dedicarsi all’assistenza degli orfani africani dell’Aids, di cui già allora le Nazioni Unite e le autorità sanitarie avevano cominciato a favoleggiare. Con l’energìa instancabile dei migliori missionari, i Krynen riuscirono in pochi anni ad assicurare un afflusso annuo d’oltre 100 miliardi ad un loro programma sanitario che contò presto, nei paesi africani allora indicati come il focolaio dell’epidemia e dell’orfanezza di massa, la bellezza di 230 tra medici, paramedici e assistenti sociali.
Ma nel giro di pochi anni, pur avendo potuto svolgere una vasta e apprezzata opera di assistenza sanitaria, i Krynen scoprirono d’essere stati odiosamente turlupinati, in materia di Aids. Così, tornati in Francia, presentarono alla stampa nazionale e internazionale un esplosivo rapporto ove tra l’altro confutavano la tesi ufficiale della trasmissione dell’Aids per via sessuale (nessuno delle migliaia di partners di presunti malati di Aids da loro controllati era risultato infetto) e, soprattutto, smascheravano la truffa imbastita con i cosiddetti “orfani dell’Aids”. “Poco a poco – dichiaravano i Krynen nel loro rapporto – scoprimmo che i genitori dei presunti orfanelli non erano affatto morti, ma, com’è diffuso costume in molta parte dell’Africa, avevano semplicemente abbandonato i loro figli, trasferendosi altrove. Ben presto, però, gl’indigeni avevano scoperto che lo status di “orfani dell’Aids” assicura aiuti sostanziosi in denaro e in natura (in Africa sono 720 le missioni benefiche occidentali nel campo dell’Aids) cui un semplice affamato, in un continente affamato, non può mai aspirare”.
E i Krynen concludevano amaramente: “E’ davvero terribile scoprire di aver investito tante energie in una tragedia che si è rivelata poi solo una colossale menzogna. Il mondo è stato sottoposto a un autentico lavaggio del cervello a proposito dell’Aids, cosicchè nessuno controlla le menzogne. L’Aids esiste per forza propria: la forza della menzogna. Eravamo andati in Africa per aiutare gli orfani dell’Aids e ci troviamo dinanzi al fatto che non esiste l’Aids e non esistono i suoi orfani”.
Ma il rapporto Krynen è stato sepolto, come d’altronde il mio libro e tutta l’imponente documentazione sulla truffa dell’Aids prodotta da 750 scienziati del dissenso in 32 paesi, sotto una coltre di silenzio: solo il Sunday Times di Londra lo ha pubblicato integralmente, ma il suo direttore (vedi caso) è stato silurato dopo poche settimane. Così, in tutta l’Africa, si è continuato a fare diagnosi di Aids nel 70-80% dei casi, senza alcun esame specifico, ai malati di tubercolosi e dissenteria: due malattìe notoriamente endemiche nel continente nero.
Del resto, sono gli stessi dati dell’Annuario Demografico delle Nazioni Unite a smentire Kofi Annan. Non solo nell’Africa intera, ma proprio nei paesi ove, secondo Annan, l’Aids mieterebbe milioni di vittime creando un’intera generazione di orfani, la mortalità adulta è notevolmente calata negli ultimi anni, passando tra il ‘75/% e il ’97, dal 54 al 51 per mille nello Zambia, dal 46al 42 in Kenya, dal 47 al 45 nel Malawi, dal 60 al 39% in Nigeria, dal 59 al 40 in Somalia e dal 50 al 26 in Sud Africa. E’ evidente che l’epidemìa sterminatrice farneticata da Kofi Annan e da tante altre autorità non potrebbe coesistere con questa mortalità globale in forte calo.

Questo, amici, è il mondo di servilismo e conformismo scientifico-culturale in cui viviamo, e non solo in Italia. Certo è molto doloroso scoprire che di questo mondo sono complici, spero inconsapevoli, anche personaggi che consideravamo specchiati come Kofi Annan. Ma, dopotutto, si tratta pur sempre di esponenti di quella burocrazia internazionale che la nostra analisi psicopolitica ci ha insegnato a smitizzare insieme a tutte le altre burocrazie. E comunque la truffa dell’Aids e dei suoi orfani può almeno servirci per capire che un’autentica Rivoluzione Liberale, come vado ribadendo da tempo, deve investire anche la scienza e la cultura, perché l’attuale mondo accademico è troppo conformista e corrotto per poter produrre ricerca indipendente. E anche l’ultimo trionfale annuncio sulla “imminente scoperta” del vaccino può essere inquadrato in questa inesauribile sinfonia di menzogne. Pensate che proprio quest’anno ricorre il ventennale del primo analogo trionfale annuncio. Fu infatti nel 1984 che il superesperto di Aids Robert Gallo, insieme al Ministro della Sanità americano dell’epoca, annunciò che entro due anni al massimo sarebbe stato realizzato un vaccino sicuro contro l’Aids...

venerdì 4 settembre 2009

Ajello, la cultura di destra
la pagliuzza e il trave
08.06

Leggendo su “Repubblica”dell’11 luglio (2006) un lungo articolo di Nello Ajello sulla cultura (o incultura) di destra mi sono subito balzati in mente due motti famosi: “Se Cartagine piange, Roma non ride” e “Vedono la pagliuzza nell’occhio altrui ma non vedono il trave nel proprio occhio”.
Ajello si prodiga per due intere pagine a dimostrare l’inconsistenza, per non dire l’inesistenza, d’una cultura di destra ed arriva a una conclusione severa e inesorabile sintetizzata nel titolo della sua articolessa: “Il partito senza idee”. E tutto sommato non posso non concordare con lui. La destra non ha idee e sa soltanto baloccarsi con i residui riciclati della tradizione: un po’ di tiepido nazionalismo, un po’ di sbiadito cattolicesimo, un po’ di astiose nostalgie fasciste. Ma la filippica e il titolo di Ajello poggiano su un assunto gabbato per solido e che, invece, è non solo fragile ma addirittura comico: e cioè che la sinistra abbia oggi una cultura. Naturalmente qui bisogna intendersi sul termine “cultura”.
Certo la sinistra ha oggi quadrate legioni di celebrati intellettuali, gragnuole di manifestazioni, celebrazioni e premiazioni culturali, piramidi di cattedre universitarie (anche perché è stata sempre abilissima nel corteggiare e piazzare bene i personaggi che un tempo erano definiti utili idioti e che si sono invece rivelati inutili furbetti). Ma se per cultura s’intende, come lo stesso Ajello sembra intendere col suo titolo, un fermento intenso di ricerche innovative, di creatività, insomma di idee, allora davvero la sinistra sta anche peggio della destra, per il semplice motivo che, in quanto sinistra, essa avrebbe il dovere d’incarnare il cambiamento e l’innovazione. E viceversa, in quella gragnola di manifestazioni, in quelle legioni d’intellettuali, in quella catasta di cattedratici non si riesce a vedere una sola idea nuova, magari solitaria e smarrita come la molecola di sodio della pubblicità d’una famosa acqua minerale.
Perfino la battuta famosa rivolta dal protagonista d’un film di Moretti al leader comunista “Di’ qualcosa di sinistra !” rivela inconsapevolmente lo smarrimento dell’accusatore, che non sa lontanamente precisare che in che consista quel “qualcosa di sinistra”. E difatti quando, qualche anno dopo, lo stesso Moretti scese in campo accusando d’incapacità i leaders del partito e candidandosi al ruolo d’ispiratore del rinnovamento, che cosa ha saputo produrre ? I girotondi e i girotondini che, dopo un po’ di chiassate, come è tipico di quel gioco, sono finiti “tutti giù per terra”.
Esattamente come la destra, la cultura della cosiddetta sinistra si balocca con i residui della sua tradizione: riciclando un po’ di invettive rivoluzionarie, o riscoprendo l’ombrello della socialdemocrazia, o celebrando senza convinzione i mummificati e impolverati idoli del suo passato (da Foucault a Brecht a Sartre), oppure mobilitando i suoi pompatissimi intellettuali odierni che si riveriscono e si premiano tra loro o infine ripetendo nelle università i rituali insulsi della didattica nozionistica e dell’indottrinamento degli allievi, che da sempre caratterizzano la tradizione accademica conservatrice.
E del resto tutto ciò è non solo comprensibile, ma inevitabile, perché la cultura di sinistra è composta da sacerdoti officianti ma non più credenti, da zeloti d’un Dio che non solo è fallito, come diceva Silone, ma è morto. Come scrisse Alberoni negli anni in cui si profilava il crollo del comunismo: “I marxisti europei non devono oggi abbandonare un punto di vista o un’ipotesi stimolante, devono abbandonare una fede, una sponda sicura, una casa, una fratellanza che travalica i paesi. Io non credo che questa separazione sarà indolore perché molti di loro avranno soprattutto un bisogno di fede che il relativismo scettico di tanta cultura contemporanea è destinato a frustrare. In questo momento di svolta della cultura comunista in Italia sono perciò portato a domandarmi dove condurrà la perdita di un’ideologia sicura e ritenuta inviolabile…Una delle ipotesi più probabili è che molti credenti della sinistra finiranno nei movimenti religiosi”.
Questa ipotesi di Alberoni ha trovato molte conferme, anche se molti altri credenti del mito comunista sono finiti invece nei movimenti ecologisti o addirittura nella droga, il che è perfettamente comprensibile alla luce dell’analisi psicopolitica, perché da un lato l’ecologismo consente di conservare il meccanismo psicologico della religione dogmatica sostituendo a Dio la Natura e a Satana il capitalismo mentre, dall’altro, la droga offre coi suoi paradisi chimici un surrogato del Paradiso terrestre dell’utopia rivoluzionaria o di quello celeste delle religioni dogmatiche. Ma il “grosso” del gregge e del clero comunista è rimasto a metà del guado: dotato di ogni tipo di salmeria e privilegio castale, ma privo delle vecchie idee entusiasmanti e incapace di darsene di nuove.
Africa: vergogna dei leaders
religiosi, politici e scientifici 2005

Il “Venerdì” di Repubblica pubblicava il 27 maggio un ampio servizio di copertina interamente dedicato all’Africa e intitolato “Africa – Da un anno fa ad oggi altri 10 milioni di persone sono morte per fame, malattie, guerre. Insomma, nulla è cambiato”. Il servizio, che traccia un bilancio catastrofico della situazione africana e degli sforzi fallimentari compiuti dall’Occidente per soccorrere quelle popolazioni, merita un commento approfondito perché mi è sembrato un esempio emblematico dell’incredibile rimozione della “madre di tutte le tragedie contemporanee”, appunto l’esplosione demografica, che accomuna le nostre dirigenze mediatiche, religiose, politiche e scientifiche al di là delle loro divergenze abissali in tanti campi e che conferma il primato dei fattori psicologici nella dinamica socio-politica del nostro tempo.
In dieci fitte pagine, l’articolo riesce infatti a descrivere sia gli aspetti generali che qualche episodio più orripilante della tragedia africana e ad intervistare sulla questione le più diverse autorità politiche, religiose e scientifiche, ma senza dedicare una sola riga, una sola parola ai cruciali fattori demografici di quella tragedia, posti tra l’altro anche alla base della marea immigratoria che sta travolgendo la civiltà liberaldemocratica europea.
“Fino agli Anni Sessanta – scrive il supplemento di “Repubblica” all’inizio del suo reportage – gli abitanti di Mwanza vivevano poveramente ma dignitosamente del pesce pescato nel Lago Victoria. Poi venne la modernità e s’introdusse nel lago il pesce persico del Nilo. Oggi, sulle rive del Victoria, la gente si ciba e nutre le famiglie coi resti del pesce persico lavorato dall’industria ittica locale. Questa storia, che si svolge sul più grande lago del mondo, la racconta un film crudo e terribile, “L’incubo di Darwin”, girato da un regista austriaco, Hubert Sauper”. Peccato però che nè il sagace reporter di “Repubblica”, Attilio Giordano, né il geniale regista austriaco che della storia di Mwanza si prodiga a raccontare le immagini più atroci di fame e crudeltà, accennino minimamente alla causa primaria di tanto orrore (considerata evidentemente una quisquilia dai nostri intellettuali, sempre così ricchi di compassione a buon mercato e così poveri d’intelligenza e indipendenza, qualità purtroppo costose per chi le ha e le usa): e cioè al fatto che, nel mezzo secolo trascorso tra il Paradiso Perduto degli anni ’60 e l’Inferno attuale, la popolazione locale (che già allora viveva poveramente, ma dignitosamente) sia divenuta otto volte più numerosa (dicesi otto volte), com’è del resto accaduto in tutto il Continente africano. Per capire la vergognosa stupidità e viltà di questa omissione, basta domandarsi che sarebbe dell’Italia se, dai 50 milioni d’abitanti degli anni ’50 fossimo diventati 100 milioni nel 1965, 200 milioni nel 1980, 400 milioni nel 1995 e veleggiassimo verso gli 800 milioni tra 5 anni. Anche i nostri bambini, come quelli africani, cercherebbero qualche avanzo tra montagne di rifiuti e anche noi saremmo felici di lavorare per un paio di euro al giorno, mentre non servirebbero a molto gli 800 mila contratti per lavori socialmente inutili chiesti e ottenuti dal leader intelligente della nostra sinistra intelligente, Fausto Bertinotti. Ma i nostri cervelloni strapagati delle cattedre di scienze politiche, economiche, sociali e perfino demografiche, questo tema della popolazione preferiscono ignorarlo da sempre o, tutt’al più, se ne occupano solo per segnalare, disperati, che la nostra popolazione non cresce più.
E anche gli “esperti” (si fa per dire) intervistati da “Repubblica” sono, in proposito,
più muti dei pesci. Così Antonio Raimondi, presidente di tutte le organizzazioni assistenziali dei salesiani (un carrozzone da molti miliardi di euro), spiega il disastro africano con i tre micidiali colpi inflitti al continente nero dal solito belzebù, il bieco Occidente: il primo fu lo schiavismo, il secondo fu il colonialismo politico e il terzo è il neo-colonialismo economico odierno. Ma, oltre a sorvolare sul caldo appoggio dato a queste nefaste imprese dell’Occidente capitalista dal mondo clericale del passato, Raimondi scorda del tutto il quarto colpo, davvero mortale, inflitto all’Africa dai suoi prediletti romani pontefici del ‘900: l’esplosione demografica, coi suoi tragici corollari che Raimondi enumera lamentosamente - dalla fame alla mortalità infantile alle malattie alla desertificazione alle guerre territoriali (ben 16 oggi in atto con 4 milioni di morti in cinque anni, nella sola guerra del Congo) – tacendone peratro scrupolosamente la massima causa. Ma non c’è forse da stupirsene, dopotutto si tratta di marmittoni del Vaticano abituati da sempre, per usare un motto militare, “a servir tacendo e, tacendo, morir”.
Più difficile è capire l’identico vergognoso silenzio di Giampaolo Calchi Novati sulle primarie cause demografiche della tragedia africana. Giovane leone sessantottino che negli anni ’70 rovesciò nelle librerie italiane i suoi saggi innumerevoli e indistinguibili sulle colpe dell’Occidente capitalista e sulle meraviglie del Terzo Mondo, Calchi Novati si è puntualmente assicurato la sua brava e strapagata cattedra di Storia africana contemporanea e nell’ultima sua opera ripete la sua prevedibile elencazione delle tragedie africane e delle colpe del Belzebù occidentale, ma non dice neanche lui una parola sulla quisquilia della Bomba demografica. Del resto, perfino un luminare della medicina italiana come il prof. Aldo Morrone, che dirige un intero ospedale in Etiopia e che, in quanto medico, dovrebbe conoscere bene il calvario delle donne africane sfiancate dalle maternità, e dei bambini affamati di quelle donne costrette a figliare come coniglie, disquisisce a lungo sull’inutilità di troppi aiuti sanitari, ma si cuce la bocca sul tema demografico.
Insomma, un giornalista progressista, un geniale regista, l’organo magno della nostra cultura sinistrese, i frati salesiani, un cattedratico al merito sessantottino e una emulo nostrano del Dr. Schweitzer cantano tutti in coro, nonostante le abissali differenze ideologiche, lo stesso barboso miserere sulla tragedia africana ma si guardano bene tutti dall’accennare alla sua causa centrale – la natalità incontrollata – e alla pregiudiziale d’ogni serio rimedio: la regolazione delle nascite. Dinanzi a quest’assurdo e generale piagnisteo, solo l’analisi psicopolitica riesce a indicare nei tabù sessuali una spiegazione applicabile a tutti i rappresentanti della politica, della cultura, dell’informazione e delle scienza egemoni, al di là delle rispettive diversità ideologiche. Ed è davvero difficile capire perché ci si ostini a negare l’importanza prioritaria delle cause e delle analisi psicologiche dei grandi problemi odierni.

giovedì 3 settembre 2009

Bambini, cavoli e nonnni - 08.01.06

“Una volta dicevamo ai nostri figli che i bambini nascono sotto i cavoli; Oggi gli diciamo che il nonno è andato in America”. Con questa battuta carica di humor nero il sociologo inglese Geoffrey Gorer intendeva segnalarci già 30 anni fa che il massimo tabù della nostra cultura non è più il sesso, ma la morte.Tutto ciò è pienamente comprensibile, del resto, perché il pensiero moderno, abbattendo i dogmi e le certezze della tradizione religiosa, ha abbattuto anche, a volte senza neppure accorgersene, le barriere che la psiche umana aveva costruito, fin dai primordi della civiltà, per difendersi dall’angoscia della morte. A quei dogmi ed a quelle certezze, infatti, erano ancorate le promesse di salvezza e d’immortalità offerte dalla nostra come da ogni altra religione ai seguaci della Vera Chiesa e della Vera Fede
Non vorrei però essere frainteso. Il crollo dei dogmatismi religiosi e politici non può essere considerato di certo una calamità da qualsiasi persona impegnata nella lotta per la libertà, per la pace e per l’evoluzione umana. Un’analisi anche sommaria della Storia e della stessa realtà odierna ci rivela facilmente, infatti, quanto alto sia stato e sia il prezzo di sangue, di oppressione e di dolore pagato dall’umanità per quelle difese dogmatiche dall’angoscia esistenziale. Ogni dogma religioso e politico, infatti, si è fondato sempre, in ogni gruppo umano, sulla certezza che la propria era l’unica Vera Fede o l’unica Vera Rivoluzione e che, quindi, i seguaci d’ogni altra fede religiosa o politica erano agenti del Male e andavano sterminati o sottomessi.
Nessun rimpianto, dunque, per un modello culturale che ha insanguinato tutto il corso della storia umana e che, col fanatismo islamico, continua ad insanguinarla.. Ma, al tempo stesso, credo che non dobbiamo neppure accettare la folle rimozione della morte che oggi prevale nella cultura contemporanea. Viviamo una crisi drammatica della vicenda umana, ma può essere una crisi di crescita, non di agonìa e di morte. Non siamo affatto in un vicolo ceco. Abbiamo dinanzi a noi tre strade troppo spesso ignorate o trascurate.
La prima è quella della passione amorosa, sia perché l’amore è un potente antidoto contro l’angoscia (come diceva Wilhelm Reich, piacere e angoscia sono i due poli contrapposti della vita emozionale), sia perché l’orgasmo stesso, in quanto accompagnato da una monertanea perdita di coscienza, può essere visto come una specie di “morte dolce”: e non caso i francesi lo chiamano “la piccola morte”.
La seconda strada è quella dell’elaborazione psicologica del problema nell’ambito del rapporto d’analisi .E’ la via che, del resto, ha sempre caratterizzato la psicoterapia. Pensare che la psicoterapia risolva o cancelli i problemi della nostra vita è un’antica illusione propalata di buon accordo da terapisti e clienti millantatori. La psicoterapia, infatti, non elimina i nostri grandi problemi e conflitti interiori, ma ci aiuta a convivere con essi e ad elaborarli in modo creativo. Ed altrettanto può fare col problema della morte, purchè essa non rifiuti di riconoscerne la drammatica gravità, come purtroppo ha fatto fino ad epoca recente. Così, attraverso un’attività paziente e approfondita di elaborazione e di analisi (appunto l’attività cui mi dedico ormai da quindici anni con i miei collaboratori dell’Istituto di Psicologia Umanistica Esistenziale), possiamo ridimensionare di molto la nostra angoscia di morte e riuscire a metabolizzarla in creatività, progettualità e solidarietà. Del resto, ciò significa tradurre in termini psicologici l’antico insegnamento dei grandi pensatori. Platone definiva la filosofia “una prova generale del dramma della morte” e Montaigne ha scritto questa massima di suprema saggezza: “Filosofare è imparare a morire, ma imparare a morire è anche imparare a vivere”.
Ma c’è anche una terza via, umanistica e non dogmatica, per affrontare l’angoscia della morte: quella della ricerca scientifica sulla vita ultraterrena. L’esponente più coraggiosa e commovente di questa ricerca è per me una psichiatra umanistica americana, Elizabeth Kubler-Ross, che è stata anche l’iniziatrice dell’assistenza psicologica ai malati terminali. Dopo aver monitorato ventimila casi di persone d’ogni paese e d’ogni cultura (Cristiani, Induisti, Islamici, Buddisti, Aborigeni Australiani ecc.) dichiarate clinicamente morte e poi ritornate in vita e dopo averne seguito personalmente varie centinaia, la Ross ha scritto in “La Morte e la Vita dopo la Morte” (Edizioni Mediterranee, 1991): “Da migliaia di anni ci spingono a credere in una vita ultraterrena. Ma per me non si tratta più di credere . Si tratta di solo di sapere, ”cioè di conoscere le prove di questa vita oltre la vita”. Nel corso delle sue ricerche, infatti, Elizabeth Kubler-Ross ha scoperto che i reduci dalla morte clinica raccontano spesso esperienze molto simili, indipendentemente dalla propria appartenenza a questa od a quella cultura. Tutti raccontano di aver vissuto senza dolore il momento del trapasso, di aver visto i medici o gli altri soccorritori affaccendarsi intorno al loro corpo ormai senza vita, di essere stati accolti nell’aldilà con amore dalle persone morte a loro più care, di essere giunti ad un luogo di luce e gioia ineffabile e di aver vissuto con sofferenza e delusione il ritorno alla vita terrena ed al loro corpo. Naturalmente molti materialisti e molti atei hanno sepolto queste testimonianze sotto i loro sarcasmi. Ma, per parte mia, considero queste categoriche negazioni solo forme di dogmatismo paradossalmente identiche ai fideismi delle varie ortodossìe religiose. La psicologia e la scienza umanistica devono essere pronte, invece, ad impegnarsi in ogni tipo di ricerca seria e ad accoglierne i risultati. Certo, le osservazioni della Dr.ssa Ross e degli altri ricercatori in campo spirituale e parapsicologico vanno confrontate con quelle dei ricercatori di diverso orientamento e sviluppate in direzioni nuove, ma non possono essere scartate in base ai pregiudizi d’un pensiero ateo e positivista altrettanto dogmatico è datato quanto i vecchi fanatismi religiosi. E ciò non solo perché non ci deve essere spazio per nessun dogmatismo nel pensiero libertario ma anche perché solo una risposta umanistica alla crisi esistenziale della cultura occidentale può salvarci dal ritorno dei vecchi fanatismi salvazionisti di stampo religioso o politico e può fare di questa crisi epocale una crisi di crescita creativa e affratellante per l’umanità intera.

Luigi De Marchi

Antigone e i padri padroni 09.05.05

La cronaca nera mediorientale si è intrecciata in questi giorni con la cronaca culturale in modo drammatico ma, al tempo stesso, ricco di suggestioni. “Repubblica”, nelle sue pagine culturali, ha pubblicato l’annuncio d’una lettura dell’”Antigone” di Sofocle affidata a Monica Guerritore e Luca Lazzareschi ed inserita in un ciclo di letture di testi classici sui grandi temi della Legge e della Giustizia, che si sta svolgendo a Bologna.
La tragedia di Sofocle, rappresentata ad Atene nel V secolo a.C., narra la rivolta coraggiosa, anzi temeraria di Antigone, giovane donna, contro il tiranno di Tebe, Creonte, che vuole lasciare insepolto il cadavere di Polinice, fratello di Antigone, colpevole d’aver impugnato le armi contro di lui. A differenza di due altri famosi tragedi dell’antica Grecia, Eschilo ed Euripide, Sofocle non ama affidare alle sue opere messaggi troppo espliciti ed anche in Antigone egli si limita a contrapporre la ragion di Stato del tiranno, che vuol ricordare al popolo il destino d’infamia che attende i ribelli, e Antigone, che è pronta a rischiare la vita pur di testimoniare i sentimenti di rispetto e di pietà che devono unire sempre gli uomini, al di là dei loro odi e conflitti politici. E in questa tragedia non ci sono né vinti né vincitori: Antigone sarà uccisa dagli sbirri di Creonte, ma questi vedrà la rovina della sua famiglia e il suicidio di suo figlio Emone, disperato per la morte di Antigone, sua promessa sposa.
Al di là della trama apparentemente “neutrale”, dalla figura di Antigone si sprigiona un fascino contagioso che ne ha fatto un punto di riferimento eterno per le coscienze libere e ricche di umanità, risolute a ribellarsi alla tirannìa anche a costo della vita, in nome dei propri sentimenti umani e dei propri ideali. Quel fascino contagioso è sempre dipeso, credo, anche dal fatto che Antigone è una giovane donna in rivolta contro il potere maschile, ma oggi esso mi sembra moltiplicarsi nel quadro dello scontro epocale in atto tra la morale maschilista delle religioni tradizionali e l’etica dei diritti umani universali di cui l’Occidente liberale è o dovrebbe essere paladino. E questo scontro, come dicevo all’inizio, ha trovato espressione quasi emblenatica in alcuni episodi atroci di cronaca nera riferiti dai giornali proprio in questi giorni.
A Ramallah, in Cisgiordania, un padre cristiano palestinese ha assassinato la figlia di 22 anni che intendeva sposare, nonostante il suo divieto, un islamico palestinese, mentre in quello stesso giorno, alla periferia di Gerusalemme, un giovane islamico ha ucciso due sorelle, e ne ha gravemente ferito una terza, che avevano troppo “fraternizzato” con gli israeliani. E dopo quest’azione mostruosa l’assassino ha incassato la solidarietà e il plauso dei genitori delle ragazze. Di recente, inoltre, una giovane di Gaza era stata assassinata dalla polizia del buon costume di Hamas, il movimento estremista appoggiato anche dai nostri cari post-comunisti, ed un’altra ragazza di Tulkarem, stuprata dal padre che l’aveva anche messa incinta, era stata sgozzata dal fratello perché si era permessa di protestare pubblicamente contro il suo bravo babbino. E questo caso ci riporta al delitto di Ramallah, ricordato poco fa.
Il paparino di Ramallah non era stato travolto da un impeto improvviso di collera. Prima aveva percosso così brutalmente la figlia che questa aveva dovuto essere ricoverata in ospedale. Poi quando questa, terminato il ricovero, era tornata a casa, l’aveva assassinata a colpi di spranga. E quando, ai funerali della ragazza, alcune donne dei movimenti femminili palestinesi avevano tentato di protestare contro la sostanziale impunità che le leggi palestinesi assicurano agli autori dei cosiddetti delitti d’onore, altre donne islamiche, diciamo così benpensanti, le avevano rimproverate e aggredite perché “colpevoli” di voler denunciare l’omertà e il silenzio con cui la società islamica “copre” quegli orrendi crimini.
Ecco dunque la lezione che ci viene dall’intreccio della cronaca nera palestinese con la rievocazione bolognese di Antigone. Nei delitti mostruosi di Ramallah, Gaza e Tulkarem vediamo i frutti avvelenati dell’etica maschilista di tutte le religioni monoteiste, compresa la cristiana: sì, anche la cristiana, e non solo perché il babbino libanese era un cristiano osservante ma anche perché le prodezze di molti babbi cristiani anche nostrani non sono state meno orripilanti, finchè il cristianesimo non ha dovuto fare i conti col pensiero e con le leggi liberali. Basterà ricordare il martirio di Beatrice Cenci, stuprata dal padre (un mostro di crudeltà e brutalità) e decapitata a Roma per volere di papa Clemente (si fa per dire) VIII, perché aveva aiutato il fratello e la madre a sopprimerlo. Del resto, lo spirito tirannico del Dio giudaico-cristiano emerge nella storia di Abramo, spinto da Jahvè fin quasi a sgozzare il figlio Isacco per verificare la sua devozione, o in quella di Gesù, figlio di Dio stesso, che deve farsi crocifiggere per placare le ire del Padre suo contro gli umani, disobbedienti e peccatori.
In Antigone, invece, 500 anni prima di Cristo e 1.000 prima di Maometto, vediamo onorato e celebrato il coraggio di una giovane donna, autentica pioniera dei diritti umani, che sfida il tiranno in nome dei suoi valori morali e della pietà dovuta ai defunti. In lei vediamo rivendicati, per la prima volta nella storia, i diritti della coscienza morale individuale che troveranno poi espressione sempre più chiara ed articolata nella democrazia ateniese e nella filosofia classica, poi nell’umanesimo e infine nell’Illuminismo e nello “Spirito delle Leggi” di Montesquieu. In tutto questo processo di rivolta contro il dispotismo patriarcale le religioni monoteiste, tutte maschiliste e patriarcali, sono state quasi sempre dalla parte degli oppressori. Proclamare le radici cristiane della Costituzione liberal-democratica europea, come pretendeva papa Woytila e come oggi pretende papa Ratzinger, o appoggiare le pretese islamiche contro l’Occidente liberale come fanno i nostri cosiddetti progressisti, sarebbe stato e sarebbe dunque non solo un clamoroso falso ideologico e storico, ma anche una scelta che avrebbe candidato l’Europa alla perpetuazione degli scontri di civiltà (anzi d’inciviltà) religiosa e dogmatica che per secoli hanno insanguinato il mondo e che a parole si vogliono evitare.

martedì 1 settembre 2009

Svegliati Obama! E ridimensiona i generali

Poco dopo aver assunto il comando delle Forze NATO in Afganistan il Gen. Stanley McChrystal ha consegnato un rapporto in cui dichiara: 1) che la situazione della guerra contro i talebani "è grave"; 2) che la guerra peraltro "si può ancora vincere"; 3) che bisogna però, a tal fine, "cambiare radicalmente strategia" e 4) che è indispensabile inviare nuove truppe (32.000 uomini ?) sul teatro della guerra.

Sono tesi quasi identiche a quelle presentate a suo tempo dal celebrato Gen. Paetreus, comandante in capo delle truppe alleate in Irak, è poi approdate alla solita carneficina inconcludente.

Dinanzi a questa monotona e inutile ripetizione di queste grottesche ricette di salvezza mi sembra urgente porre il problema più generale degli strumenti con cui, finora, l'Occidente ha tentato di fermare il terrorismo nel mondo islamico. Vediamoli tutti da vicino, questi strumenti.

In questi anni abbiamo assistito al fallimento delle tre strategie finora applicate dai leaders dell’Occidente liberale per vincere o almeno fermare il terrorismo 1) l’intervento militare; 2) la prevenzione e la repressione con le risorse dell’intelligence; 3) l’introduzione di elezioni democratiche nel mondo islamico - e alla generale invocazione di nuovi strumenti di lotta.
L’intervento militare ha già dimostrato ampiamente, in Irak come in Afganistan, di moltiplicare anziché annientare o decimare le file dei terroristi. Ciò era pienamente prevedibile e, per parte mia, l’avevo previsto già in un’intervista a RaiUno pochi giorni dopo la strage delle Torri Gemelle. Sono forse dotato di facoltà divinatorie ? No, purtroppo. Avevo semplicemente applicato al terrorismo gli strumenti dell’analisi psicopolitica che spiegano chiaramente perché il terrorismo non sia domabile con la minaccia o l’uso della forza militare: infatti il terrorista (e il fanatico in genere) non solo non teme ma desidera ardentemente la morte in battaglia, che considera il viatico più sicuro per l’immortalità e la felicità eterna nel Paradiso dei Martiri, allietata dai voluttuosi abbracci delle 72 vergini.
L’efficacia della deterrenza, del controllo e della rappresaglia militare è quindi sostanzialmente vanificata nei confronti dei terroristi.
Gli avversari dell’intervento militare hanno sempre esaltato la presunta, ben maggiore efficacia dell’arma dell’intelligence, ma gli attentati di Londra, preparati e attuati sotto il naso dei più stimati servizi d’intelligence del mondo intero, ed anche quelli reiterati due giorni dopo e falliti solo per i guasti tecnici degli ordigni, hanno ampiamente dimostrato l’inefficacia dell’intelligence: un’inefficacia determinata anch’essa dalla personalità e dall’ideologia fanatica del terrorista che ha reso indifendibili i suoi bersagli estendoli all’intera popolazione civile.
La terza arma messa in campo dalla classe politica tradizionale dell’Occidente, e cioè la democratizzazione dei paesi islamici attraverso elezioni a suffragio universale da svolgere dopo campagne elettorali pluraliste con leaders e liste contrapposte, è anch’essa clamorosamente fallita per ben tre volte, cioè in Afghanistan, in Irak e in Iran. In Afghanistan, il popolo (comprese le donne ingabbiate nel burka) ha pacificamente e plebiscitariamente eletto al Parlamento e al Governo i vecchi capi-clan e capi-tribù maschilisti, misogini e dogmatici legati a doppio filo col clero fondamentalista. In Irak, il popolo ha democraticamente e plebiscitariamente eletto gli stessi capi-clan maschilisti, misogini e dogmatici legati a doppio filo con gli ayatollà sciiti, a loro volta legati a doppio filo con quelli iraniani, primatisti mondiali dell’assassinio politico e della tortura. In Iran, infine, potendo scegliere tra un leader fanatico ed uno pragmatico, il popolo ha plebiscitariamente eletto il fanatico prediletto dagli ayatollà più fanatici e accusato da molti testimoni d’essere stato egli stesso torturatore e assassino.
Dinanzi a questo triplice clamoroso fiasco, molte voci si sono levate per invocare tanto l’ideazione quanto l’applicazione di nuove e più efficaci armi nella lotta al terrorismo. Ma finora nessuna proposta innovativa è stata avanzata.
Per parte mia, invece, già all’indomani della strage alle Torri Gemelle avevo segnalato l’inutilità degli strumenti convenzionali nella lotta al terrorismo e sostenuto la necessità di bonificare la cultura islamica (e, del resto, ogni altra cultura dogmatica) dai suoi tratti fanatici perché, ovviamente, è nel fanatismo che nasce e prospera la pianta velenosa del terrorismo, ed avevo indicato l’arma vincente nella psicologia politica. Ma quali sono, dunque, gli strumenti operativi che la psicologia politica può mettere in campo ?
Anzitutto, una gigantesca cintura mediatica, cioè una collana di emittenti radiotelesivive che, 24 ore al giorno, offra alle popolazioni slamiche (e ad ogni altra popolazione soggetta a regimi tirannici) le immagini, le musiche ed i messaggi di libertà non solo politica ma femminile, giovanile, amorosa, educativa, culturale e religiosa del mondo libero. Purtroppo i leaders dell’Occidente si sono mostrati sordi ai nostri appelli. Solo Silvio Berlusconi, dopo una serie di miei articoli sull’”Avanti!” di Brunetta e Cicchitto, in un incontro coi giornalisti dichiarò: “Il terrorismo non si può vincere con la forza militare, ma solo con le televisioni e gli altri media”. Ma a quelle parole promettenti non seguì poi nessuna iniziativa concreta.
E invece l’arma vincente dell’Occidente liberale sta proprio nella sua carica di libertà personale e culturale, perché il bisogno di libertà è un’esigenza insopprimibile dell’essere umano, che nessuna tirannia né politica né religiosa è mai riuscita o mai riuscirà a spegnere. Beninteso i programmi di questa cintura mediatica non dovranno essere affidati al capriccio dei soliti intellettualetti e gazzettieri rimpinzati d’ideologia e digiuni di psicologia che riuscirebbero, come già avviene nelle nostre TV nazionali, a dare dell’Occidente un’immagine vuota, fatua e plasticata, ma dovrebbero essere calibrati psicologicamente sui bisogni profondi e concreti delle popolazioni destinatarie: bisogni di libertà non solo politica ma anche femminile, giovanile, amorosa, musicale, educativa e religiosa, che i governi islamici spesso reprimono.
Certo l’opposizione dei regimi tirannici a questi programmi sarà forte, ma si tratta di programmi che possono (soprattutto quelli radiofonici) raggiungere direttamente le popolazioni senza nessun bisogno del consenso dei governi locali. Inoltre, anche l’opposizione di quei regimi potrà essere attenuata condizionando la concessione degli aiuti economici e tecnologici alla concessione di frequenze radio-TV. L’influenza di queste campagne mediatiche permanenti sarà molto più rapido e radicale di quanto i nostri cosiddetti esperti (quelli che ci hanno regalato i pantani bellici afgano e irakeno o l’apertura dei cieli europei ad Al Jazeera ed alle altre TV del fanatismo islamico) non pensino e dicano: basterà ricordare che una piccola emittente della CNN in lingua persiana è stata alla base delle grandi rivolte studentesche di Teheran.
L’altra grande arma offerta dalla psicologia politica alla lotta antiterroristica è di natura preventiva. E’ oggi possibile varare e realizzare in breve tempo una serie di filtri psicologici che consentiranno d’individuare non solo i terroristi operativi ma anche i potenziali candidati al terrorismo. Questi filtri avrebbero il duplice vantaggio, se applicati a tutta l’immigrazione e a tutta la popolazione residente, di non poter essere respinti come strumenti di discriminazione etnico-culturale e di ridurre il terrorismo alla sua realtà psicopatologica, dopo le troppe e troppo stupide nobilitazioni politiche e religiose proposte o imposte nei suoi confronti dagli esponenti del masochismo “pacifista” e “democratico”.

lunedì 31 agosto 2009

Dalla Francia, con torpore

Tzvetan Todorov, critico, storico e filosofo nonché direttore del celebrato Centre National de Recherche Sociale di Parigi, ha tentato finalmente una radicale demolizione del mito del ‘68 con un breve saggio presentato solennemente da “Repubblica” in un paginone della sua rubrica “Idee”. Come ho già avuto modo di segnalare altre volte, la nostra provinciale cultura dominante , mentre imbavaglia sistematicamente le voci italiane innovative, è sempre pronta al panegirico dei novatori d’oltralpe, anche se le loro “scoperte” arrivano con anni o decenni di ritardo rispetto ai propri disprezzati connazionali.
Il fenomeno, a proposito dei miti sinistresi, si propose già al tempo dei cosiddetti “nuovi filosofi” francesi, che vennero proiettati di colpo nel firmamento dei grandi pensatori solo per aver detto, sulle odiose dittature comuniste, le stesse cose che i liberali o i socialdemocratici europei dicevano da decenni tra gl’insulti e gli scherni degl’intellettualoni sinistresi. E ricordo che, nella rivista dell’Istituto Reich, già nel marzo ’78, commentavo l’evento con queste parole ironiche: “L’ascesa vertiginosa di questi signori risponde ai tragicomici requisiti del nostro mondo culturale. Così, “L’Espresso” li ha posti al centro di un clamoroso dibattito dopo aver costantemente ignorato le analoghe tesi che Luciano Pellicani, Domenico Settembrini o io stesso andavamo esponendo da molti anni nei nostri libri. Noi, poveretti, non avevamo la fortuna di essere stranieri…”
E due o tre anni fa l’accoglienza trionfale si era riproposta per Alain Finkielkraut, osannato dai nostri giornali per aver osato dire che la rivolta delle banlieux parigine, presentata dai soliti sociologi e politologi di batteria come il prodotto delle ingiustizie economiche capitaliste, era in realtà espressione dell’odio antioccidentale diffuso tra i giovani immigrati di seconda o terza generazione dal fanatismo islamico.
Oggi è la volta di Todorov. Questi, già nell’apertura del suo saggio, formula una distinzione basilare tra le conquiste socio-culturali e l’ideologia politica del ’68:
“In quegli anni – egli scrive – vennero sormontate alcuni inibizioni, in particolare nei rapporti sessuali, ed è bene ricordare che un anno prima, in Francia, si era diffusa la contraccezione. Che una coppia andasse a coabitare senza sposarsi smise di essere motivo di stigmatizzazione morale. Sulla scia di tutto ciò, qualche anno più tardi anche la rottura del vincolo matrimoniale non sarebbe più stata vista come una colpa: divenne possibile il divorzio per ragioni consensuali. Ebbene, chi vorrebbe liquidare queste conquiste ? Per la politica, invece, le cose andarono in tutt’altro modo. Mentre sul piano del costume soffiava un vento di liberazione, i discorsi politici esalavano dogmatismo ed esaltavano (magari solo implicitamente) l’imposizione della dittatura”.
E poco più avanti Todorov scrive: “I programmi politici dei partiti si possono dividere in due gruppi. I primi, sostituti delle religioni, promettono la salvezza e un qualche paradiso in terra…Gli altri si accontentano di proporre vari livelli di miglioramento, anche accettando qualche compromesso”.
Insomma, Todorov dice cose sensate, ma molto tardive e approssimative rispetto alle analisi proposte per oltre quarant’anni dalla mia Psicologia Politica Liberale nel silenzio o nella derisione della cultura egemone. Perché la psicologia politica liberale non si è limitata a denunciare già negli anni ’60, ’70 e ’80 il “tradimento” degli ideali libertari e non violenti dei Figli dei Fiori e degli altri anticipatori del ’68 perpetrato dai marxisti-leninisti, che confiscarono e pervertirono in forme arroganti e sanguinose la rivolta giovanile e il suo motto “Fate l’amore, non la guerra”. Essa ha anche analizzato le motivazioni psicologiche di quel tradimento ed ha chiarito i meccanismi psicologici che collegano il fanatismo politico a quello religioso.
Ma i limiti del Todorov-pensiero emergono anche nel parallelo, che egli tenta, tra il ’68 e il movimento neo-con americano. Secondo lui, dunque, come i leninisti e i maoisti, anche i neo-con americani distorsero e ribaltarono gli ideali liberali della democrazia americana in senso aggressivo e distruttivo, pretendendo di esportarli con la forza delle armi. Ma è un parallelo molto discutibile, a mio parere, perché i neo-conservatori americani derivavano, appunto, da una tradizione conservatrice, che si era sempre opposta ad ogni tipo di liberalizzazione della vita privata e familiare, in genere, ed amorosa e sessuale, in particolare.
Inoltre, come si è visto, Todorov indica nell’idea politica e religiosa di rigenerazione sociale la matrice dell’intolleranza e della violenza. Ma è una conclusione molto superficiale. In realtà, la discriminante non sta nell’idea stessa di rinascita sociale, ma nei modi – tolleranti o intolleranti, pacifici o violenti – con cui si tenta di realizzare questa rinascita. E questi modi, tanto per cambiare, sono dettati dalla struttura psicologica dogmatica dei militanti e dei leaders. Difatti, come tutti sappiamo, la violenza non è venuta solo dai rivoluzionari dogmatici (leninisti, stalinisti, trotzkisti, maoisti o castristi che fossero) ma anche dai conservatori dogmatici (fascisti, nazisti, franchisti o peronisti che fossero) e dai religiosi integralisti i quali hanno spesso ostentato idee addirittura reazionarie.
Insomma, come sostiene da decenni la nostra psicologia politica liberale, il fulcro della violenza politica o religiosa non sta nell’ideologia o nell’economia, ma nella psicologia dei capi e dei seguaci. E la nostra cultura provinciale farebbe bene a uscire dal suo torpore e da quello dei suoi torpidi idoli stranieri, utilizzando gli strumenti psicopolitici che ha da decenni sotto il naso.