“Una volta dicevamo ai nostri figli che i bambini nascono sotto i cavoli; Oggi gli diciamo che il nonno è andato in America”. Con questa battuta carica di humor nero il sociologo inglese Geoffrey Gorer intendeva segnalarci già 30 anni fa che il massimo tabù della nostra cultura non è più il sesso, ma la morte.Tutto ciò è pienamente comprensibile, del resto, perché il pensiero moderno, abbattendo i dogmi e le certezze della tradizione religiosa, ha abbattuto anche, a volte senza neppure accorgersene, le barriere che la psiche umana aveva costruito, fin dai primordi della civiltà, per difendersi dall’angoscia della morte. A quei dogmi ed a quelle certezze, infatti, erano ancorate le promesse di salvezza e d’immortalità offerte dalla nostra come da ogni altra religione ai seguaci della Vera Chiesa e della Vera Fede
Non vorrei però essere frainteso. Il crollo dei dogmatismi religiosi e politici non può essere considerato di certo una calamità da qualsiasi persona impegnata nella lotta per la libertà, per la pace e per l’evoluzione umana. Un’analisi anche sommaria della Storia e della stessa realtà odierna ci rivela facilmente, infatti, quanto alto sia stato e sia il prezzo di sangue, di oppressione e di dolore pagato dall’umanità per quelle difese dogmatiche dall’angoscia esistenziale. Ogni dogma religioso e politico, infatti, si è fondato sempre, in ogni gruppo umano, sulla certezza che la propria era l’unica Vera Fede o l’unica Vera Rivoluzione e che, quindi, i seguaci d’ogni altra fede religiosa o politica erano agenti del Male e andavano sterminati o sottomessi.
Nessun rimpianto, dunque, per un modello culturale che ha insanguinato tutto il corso della storia umana e che, col fanatismo islamico, continua ad insanguinarla.. Ma, al tempo stesso, credo che non dobbiamo neppure accettare la folle rimozione della morte che oggi prevale nella cultura contemporanea. Viviamo una crisi drammatica della vicenda umana, ma può essere una crisi di crescita, non di agonìa e di morte. Non siamo affatto in un vicolo ceco. Abbiamo dinanzi a noi tre strade troppo spesso ignorate o trascurate.
La prima è quella della passione amorosa, sia perché l’amore è un potente antidoto contro l’angoscia (come diceva Wilhelm Reich, piacere e angoscia sono i due poli contrapposti della vita emozionale), sia perché l’orgasmo stesso, in quanto accompagnato da una monertanea perdita di coscienza, può essere visto come una specie di “morte dolce”: e non caso i francesi lo chiamano “la piccola morte”.
La seconda strada è quella dell’elaborazione psicologica del problema nell’ambito del rapporto d’analisi .E’ la via che, del resto, ha sempre caratterizzato la psicoterapia. Pensare che la psicoterapia risolva o cancelli i problemi della nostra vita è un’antica illusione propalata di buon accordo da terapisti e clienti millantatori. La psicoterapia, infatti, non elimina i nostri grandi problemi e conflitti interiori, ma ci aiuta a convivere con essi e ad elaborarli in modo creativo. Ed altrettanto può fare col problema della morte, purchè essa non rifiuti di riconoscerne la drammatica gravità, come purtroppo ha fatto fino ad epoca recente. Così, attraverso un’attività paziente e approfondita di elaborazione e di analisi (appunto l’attività cui mi dedico ormai da quindici anni con i miei collaboratori dell’Istituto di Psicologia Umanistica Esistenziale), possiamo ridimensionare di molto la nostra angoscia di morte e riuscire a metabolizzarla in creatività, progettualità e solidarietà. Del resto, ciò significa tradurre in termini psicologici l’antico insegnamento dei grandi pensatori. Platone definiva la filosofia “una prova generale del dramma della morte” e Montaigne ha scritto questa massima di suprema saggezza: “Filosofare è imparare a morire, ma imparare a morire è anche imparare a vivere”.
Ma c’è anche una terza via, umanistica e non dogmatica, per affrontare l’angoscia della morte: quella della ricerca scientifica sulla vita ultraterrena. L’esponente più coraggiosa e commovente di questa ricerca è per me una psichiatra umanistica americana, Elizabeth Kubler-Ross, che è stata anche l’iniziatrice dell’assistenza psicologica ai malati terminali. Dopo aver monitorato ventimila casi di persone d’ogni paese e d’ogni cultura (Cristiani, Induisti, Islamici, Buddisti, Aborigeni Australiani ecc.) dichiarate clinicamente morte e poi ritornate in vita e dopo averne seguito personalmente varie centinaia, la Ross ha scritto in “La Morte e la Vita dopo la Morte” (Edizioni Mediterranee, 1991): “Da migliaia di anni ci spingono a credere in una vita ultraterrena. Ma per me non si tratta più di credere . Si tratta di solo di sapere, ”cioè di conoscere le prove di questa vita oltre la vita”. Nel corso delle sue ricerche, infatti, Elizabeth Kubler-Ross ha scoperto che i reduci dalla morte clinica raccontano spesso esperienze molto simili, indipendentemente dalla propria appartenenza a questa od a quella cultura. Tutti raccontano di aver vissuto senza dolore il momento del trapasso, di aver visto i medici o gli altri soccorritori affaccendarsi intorno al loro corpo ormai senza vita, di essere stati accolti nell’aldilà con amore dalle persone morte a loro più care, di essere giunti ad un luogo di luce e gioia ineffabile e di aver vissuto con sofferenza e delusione il ritorno alla vita terrena ed al loro corpo. Naturalmente molti materialisti e molti atei hanno sepolto queste testimonianze sotto i loro sarcasmi. Ma, per parte mia, considero queste categoriche negazioni solo forme di dogmatismo paradossalmente identiche ai fideismi delle varie ortodossìe religiose. La psicologia e la scienza umanistica devono essere pronte, invece, ad impegnarsi in ogni tipo di ricerca seria e ad accoglierne i risultati. Certo, le osservazioni della Dr.ssa Ross e degli altri ricercatori in campo spirituale e parapsicologico vanno confrontate con quelle dei ricercatori di diverso orientamento e sviluppate in direzioni nuove, ma non possono essere scartate in base ai pregiudizi d’un pensiero ateo e positivista altrettanto dogmatico è datato quanto i vecchi fanatismi religiosi. E ciò non solo perché non ci deve essere spazio per nessun dogmatismo nel pensiero libertario ma anche perché solo una risposta umanistica alla crisi esistenziale della cultura occidentale può salvarci dal ritorno dei vecchi fanatismi salvazionisti di stampo religioso o politico e può fare di questa crisi epocale una crisi di crescita creativa e affratellante per l’umanità intera.
Luigi De Marchi
giovedì 3 settembre 2009
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